Shabbàt

Il giorno che dà senso a tutti gli altri

Rabbinato centrale Milano

Parashòt

Mishpatìm-Shekalìm 5772

“…avendo sottoposto alle cure mediche…” (Shemòt 21, 19). La Torà dice, a proposito di una persona che subisce un danno fisico, che le cure mediche a cui deve essere sottoposto sono a carico di chi gli ha procurato il danno fisico. Però il grande commentatore della Torà, Rabbì Shelomò Ytzhakì, conosciuto come Rashì, deduce da questo verso anche un altro insegnamento cioè che è stata data la facoltà ai medici di curare gli ammalati. Accadde che un giorno si presentarono degli uomini dinnanzi a uno dei grandi tzaddìkim delle generazioni precedenti e gli chiesero se poteva pregare per un ammalato che versava in gravi condizioni. I medici l’avevano dato oramai per spacciato. Questo tzaddìk gli rispose affermativamente e disse: “la Torà ha dato ai medici il permesso di curare gli ammalati e non quello di far perdere la speranza della vita”.

Yitrò 5772

“Allora Yitrò, suocero di Moshè…” (Shemòt 18, 2). I Maestri fanno notare che Yitrò era un uomo molto importante: egli era discendente di grandi personaggi ed era insignito di grandi onorificenze tra cui quella di sacerdote di Midiàn. L’Or ha-Chayìm ha-Kadòsh fa notare che qui Yitrò viene chiamato suocero di Moshè per sottolineare che per lui l’onorificenza più grande è quella di essere imparentato con  Moshè. Possiamo renderci conto dell’importanza che Yitrò attribuisce a Moshè dal suo comportamento all’inizio della parashà: Yitrò abbandona Midiàn e si va ad unire al popolo ebraico. Quando giunge nei pressi dell’accampamento si fa annunciare chiedendo a Moshè di venirgli incontro. Yitrò non vuole semplicemente essere onorato da Moshè ma vuole la dimostrazione della sua stima e della sua approvazione. Yitrò ha intrapreso un lungo viaggio materiale e spirituale che lo porterà ad avvicinarsi al popolo e al Dio d’Israele e chiede all’uomo che considera modello spirituale di approvare il cammino da lui intrapreso.

Beshallàch – Shirà 5772

“Moshè prese con sé le ossa di Yosèf, perché Yosèf aveva fatto giurare i figli d’Israele…” (Shemòt 13, 19). C’è da domandarsi per quale motivo la Torà ripeta per due volte il termine “Hasbè’a hishbì’a – aveva fatto giurare”, si può notare che tra il primo ed il secondo termine vi è una lettera in più di differenza la yod. Rashì nel suo commento ci spiega che la Torà ripete due volte la parola “giurare” perché Yosèf fece giurare i figli d’Israele per due volte. Prima quelli della sua generazione e poi i loro figli. A questo si può aggiungere il fatto che la yod della seconda espressione stia a significare che li fece giurare be-minian – in 10, valore numerico della lettera. Questo perché le cose fatte con miniàn – in 10 – hanno una forza che rimane nel tempo.

Bo 5772

Una delle spiegazioni che i Maestri danno all’intervento divino delle 10 piaghe è quello di far comprendere a tutto l’Egitto e in modo particolare al Faraone che vi sia qualcosa di più grande e potente del Faraone stesso. Questa idea che, in più di 200 anni di schiavitù, era oramai consolidata anche nel popolo d’Israele, aveva bisogno, per esser sradicata, di un’azione forte che andasse al di là della natura. Il Faraone, convinto d’esser una divinità in carne e ossa, decideva della sorte di tutto l’Egitto, e non poteva accettare che qualcuno decidesse in modo autonomo. Conferma di questo è il verso (Shemòt 10, 11) dove è scritto: “Comunque non avverrà come voi chiedete adesso. Potranno partire e servire l’Eterno solamente gli adulti, perché è questo che voi chiedete …”.  Il Faraone esprime tale concetto nella sua frase dicendo: “… Perché è questo che voi chiedete …”, ciò proprio a sottolineare il fatto che: “Io Faraone, sono quello che vi dice ciò che dovete pensare e fare”.

Vaerà 5772

Alla fine della scorsa parashà, la Torà ci ha narrato un episodio piuttosto inquietante. Poco dopo aver ricevuto da D-o la promessa di liberare i figli di Israele dall’oppressione egiziana ed essersi recato dal faraone per chiedere l’esecuzione dell’ordine divino, Moshè si trova ad affrontare due personaggi (che i maestri identificano con Datàn e Aviràm) che lo mettono di fronte a una dura realtà: invece che venire liberati, l’oppressione aumenta, così come la mole di lavoro quotidiana assegnata agli ebrei. Questa vicenda lascia Moshè molto perplesso e non sapendo cosa rispondere, si rivolge direttamente a D-o, porgendo la famosa domanda: “Perché fai del male a questo popolo”? La risposta di D-o che troviamo all’inizio della parashà, è ancora più complessa della domanda stessa in quanto D-o risponde a Moshè citando i patriarchi e spiegando come loro non si siano mai lamentati… (Rashì). In realtà alcuni commentatori sostengono che Moshè chiese con forza una risposta logica alla sua domanda, mentre D-o risponde dicendo che non tutto si può spiegare con la razionalità, per cui cita i patriarchi che eccelsero, ognuno secondo la sua natura, nelle qualità emozionali (middòt) e non in quelle razionali (sèkhel). In altre parole, l’insegnamento  è che a volte bisogna scindere tra razionalità e fede e che di fronte a un dilemma anche grave, l’emunà (la fiducia in D-o) dovrebbe sempre prevalere.