Shabbàt

Il giorno che dà senso a tutti gli altri

Rabbinato centrale Milano

Parashòt

Emòr 5773

Hashavua

“Tranne che per un suo parente stretto vicino a lui…” (Vayikrà 21, 2).

Su questo verso ci fa notare il grande commentatore Rashì che in base al Midràsh: non vi è parente stretto se non la moglie. Ed è scritto nel Talmud (Bavà Batrà 109b) “parente stretto vicino a lui” è la moglie. Scrive a proposito di questo il grande commentatore Rabbì Yakòv Tzwì di Kalenburg, conosciuto per il suo commento Ha-ktav ve ha-kabalàh, che la moglie di un uomo è chiamata “Sheèr – parente stretto”, ciò in base a quanto è scritto (Bereshìth 45, 7) “… per assicurarvi una sopravvivenza nel paese…” perché per mezzo dei figli che una donna partorisce a suo marito, essa gli garantisce una discendenza dopo la sua morte.

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Beha’alotekhà 5773

Hashavua

“… e quell’uomo, Moshè, era molto umile, più di qualunque altra persona sulla faccia della terra” (Bemidbàr 12, 3).

Il commento Binà le-Ittìm sottolinea il fatto che Moshè venga chiamato dalla Torà ish – uomo. Moshè Rabbènu è considerato il più grande di tutti i profeti, ed è proprio grazie alla sua umiltà e al fatto che egli considerava qualsiasi persona più grande e importante di lui, è ritenuto il più elevato e il più grande di tutti i profeti.

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Nassò 5773

Hashavua

“Quando un uomo o una donna commettono un torto contro qualcuno, rubando falsamente contro l’Eterno …” (Bemidbàr 5, 6).

Ha detto il grande commentatore italiano, Rabbì Ovadià Sforno, riguardo a questo verso: “La Torà in questo verso intende il furto commesso verso il gher – il proselita. Questo perché chi deruba il gher che entra a far parte del popolo d’Israele e viene a  ripararsi sotto le ali della Shekhinà – la Provvidenza, profana il nome di Dio ed è come se derubasse il Signore stesso”.

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Behàr-Bechukkotài 5773

Hashavua

All’inizio della parashà troviamo le regole riguardanti l’anno sabbatico, shemità. La Torà ordina di lasciare riposare il campo il settimo anno, di non lavorare la terra, impone di non trarre profitto da ciò che il campo produce naturalmente nel settimo anno e regola le compravendite di terreni sulla base del Giubileo, ossia dei 7 anni sabbatici. La Torà pone una logica domanda (Levitico 25, 20): se non è consentito lavorare la terra nel settimo anno di cosa vi ciberete? La Torà stessa ci offre la risposta: “Io (D-o) disporrò che nel sesto anno la terra farà crescere prodotto sufficiente per 3 anni “ ossia, per il sesto anno, per il settimo (in cui non è permesso lavorare la terra) e per l’ottavo (anno in cui si ricomincia a lavorare la terra che dunque darà frutti solo l’anno successivo, ossia il nono). Da questi versetti si evince come il sostentamento delle persone sia esclusivamente nelle mani di Dio e non dipenda (solo) dai nostri sforzi. A questo proposito alcuni si domandano cosa succeda nel caso in cui qualcuno decida di approfittare di questo beneficio del sesto anno: un agricoltore potrebbe decidere il sesto anno di osservare la shemità dell’anno successivo per godere della benedizione promessa da Dio di avere un raccolto ricco e abbondante sufficiente per coprire tre anni di vita. Quindi, una volta riempiti bene i magazzini, il settimo anno decide intenzionalmente di non rispettare la shemità e di lavorare il campo vendendo i prodotti a un mercato che non teme concorrenza! I Maestri ci spiegano che la benedizione divina non è una cosa oggettiva, bensì assolutamente soggettiva: a parità di buone intenzioni, ogni agricoltore potrà il sesto anno immagazzinare cibo a sufficienza per tre anni. Tuttavia, solamente colui che il settimo anno rispetterà la shemità potrà goderne i benefici, mentre colui che malauguratamente decidesse di non osservarla, vedrà i suoi prodotti deperire inesorabilmente. Da questo insegnamento possiamo facilmente dedurre come i nostri averi, anche una volta che sono effettivamente in mano nostra, sono comunque soggetti alla benedizione divina e il loro godimento dipende esclusivamente dalla nostra fede in Dio che tutto possiede e tutto dispone.

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Tazrìa-Metzorà 5773

Hashavua

“Se un uomo avrà sulla sua pelle … sarà condotto da Aharòn il sacerdote o da uno dei suoi figli sacerdoti …” (Vayikrà 13, 2).

I Maestri si domandano per quale motivo solamente il Cohen è adatto secondo la Torà a dichiarare una persona affetta da tzarà’at – lebbra. Il Cohen non solo doveva studiare e conoscere le modalità con cui la tzarà’at si manifestava, bensì doveva anche avere un atteggiamento d’amore e compassione verso colui che ne era stato affetto. I cohanìm sono stati scelti da Dio per svolgere una missione, e questa deve essere eseguita con amore, così come è prescritto nella Birkàt Cohanìm – la benedizione sacerdotale, “levarèkh et ammò Israèl beahavà – di benedire il Suo popolo Israele con amore”.

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