Shabbàt

Il giorno che dà senso a tutti gli altri

Rabbinato centrale Milano

Parashòt

Sheminì 5773

Hashavua

“… non berrete vino o liquore né tu né i tuoi figli con te …” (Vayikrà 10, 9).

I Maestri si domandano per quale motivo un cohèn non possa servire Dio nel Santuario se questi ha bevuto vino o  alcolici? La Torà e i suoi comandamenti sono stati dati per dare uno scopo preciso alla vita, così come dice il Salmo 19 e dovremmo trovare la nostra gioia nelle mitzvòt e non in stimoli esterni. Un cohèn che compie il suo servizio intossicato, mancherà in qualcosa. Come i genitori desiderano il meglio per i loro figli, lo stesso vuole Dio: gioire nel mondo e trarne piacere, ma non un piacere effimero e senza significato,  ma un piacere duraturo e profondo. Questo si ottiene legando noi stessi a Dio; la sensazione che si prova aiutando il prossimo è la stessa con cui l’anima è connessa al suo Creatore. Alcool, droghe e altri piaceri artificiali, sono brutte imitazioni di questa sensazione. Quindi perché cercare il falso quando si ha a portata di mano l’originale?

Dalla newsletter Hashavua del Rabbinato Centrale Milano

Ki Tissà-Parà 5766

“Ma i miei sabati osserverete” (Shemòt 31, 13). Ci si
domanda perché questa frase inizi con la parola
ma. Questo richiamo all’osservanza dello shabbàt è vicino
alle prescrizioni per la costruzione del Mishkàn. Pertanto
tale termine significa che, nonostante l’entusiasmo degli
ebrei a partecipare alla costruzione, dovevano stare bene
attenti a non violare lo shabbàt. I Maestri mettono in risalto
l’opportunità di anticipare lo shabbàt e di ritardarne la
fine, per aggiungere sacro al profano. Rabbì Israel Meìr da
Radin, noto come Chafètz Chaìm, rimproverava le persone
che ritardavano sino all’ultimo momento l’entrata dello
shabbàt, e che appena questo finiva si precipitavano ad
intraprendere le loro attività. Il Chafètz Chaìm spiega che,
mentre lo shabbàt è stato espressamente benedetto da Dio,
i giorni feriali invece risentono della punizione di Adàm,
per il quale il lavoro avrebbe costituito dura fatica. Come è
detto: “Ti procurerai il cibo con il sudore della tua fronte”
(Bereshìt 3, 19).

Vayakhèl-Pekudè-Hachòdesh 5773

Hashavua

“Moshè fece riunire l’intera adunanza dei figli d’Israele …” (Shemòt 35, 1).

Così  inizia la prima delle due parashòt della settimana. Rashì ci spiega che questo giorno di grande assemblea era quello successivo al primo Yom Kippur del popolo ebraico; Moshè scende dal Monte Sinai il giorno di Kippur e porta al popolo il messaggio di perdono che aveva ottenuto da D-o dopo il peccato del “vitello d’oro”. Il giorno successivo Moshè raduna il popolo e ordina la costruzione del Santuario. Per quale motivo Rashì ritiene così importante sottolineare il fatto che ciò avvenne il giorno dopo Kippur? Una delle spiegazioni è quella che il giorno di Kippur è riconosciuto da tutti gli ebrei come particolarmente santo. È un momento di universale raccoglimento e dedizione. Ma cosa succede l’indomani? È relativamente facile essere “santi” nel giorno più “santo” dell’anno; la vera prova consiste nel rimanere “santi” anche il giorno successivo, quello dopo ancora e così via fino al Kippur successivo. La domanda è se dopo la profonda esperienza del giorno di Kippur, avremo la stessa ispirazione e lo stesso entusiasmo che avevamo al momento della preghiera di Neilà!  Moshè vuole insegnare che ci sono momenti nella vita (Kippur è un esempio, ma ce ne possono essere molti altri, gioiosi o purtroppo dolorosi) in cui siamo chiamati per forza maggiore a una dedizione particolare; ma il “momentum” non si deve esaurire in quell’attimo: la sfida consiste nell’essere in grado di prendere decisioni continuative e sostenibili ed organizzare un piano per la nostra vita ebraica. Fra oramai pochi giorni sarà Pesach: quante case sono nel subbuglio più totale per le pulizie, quanti già fanno i calcoli di quanta pasta acquistare per non rimanere con chametz in casa alla vigilia di Pesach, quanti sono già preoccupati di quali matzot e di quali vini comprare per il seder? Quanti faranno attenzione ai propri acquisti al supermercato dopo Pesach? E’ in quel momento che nasce la sfida. Questo il messaggio di Moshè: D-o ha perdonato uno dei più grandi peccati commessi nella storia, ma questo è solo l’inizio: egli raduna il popolo il giorno dopo Kippur per comunicare loro che la sfida comincia adesso.

Dalla newsletter Hashavua del Rabbinato Centrale Milano

Tetzavvè-Zakhòr 5773

Hashavua

Leggendo attentamente le vicende narrate nel Libro di Estèr, avremo non poche difficoltà a capirne la trama e a seguirne il filo logico.
Gli avvenimenti narrati nella prima parte, dal banchetto di Achashverosh fino al capitolo 6, dove “le sorti” iniziano a ribaltarsi, non sono affatto chiari.
L’allontanamento di Vashtì, la conseguente scelta del re di sposare Ester che quindi diviene regina, il fatto che Ester, per ordine di Mordechai, non rivelò al re di essere ebrea, il modo ed il momento in cui Amman viene elevato agli alti ranghi del regno, la decisione di Amman di “circuire” il re suggerendo l’eliminazione di un “popolo sparso e diviso… che non vale la pena tenere in vita” (Meghillà 3:8). Tuttavia, improvvisamente – anche senza motivo evidente – una sera il re insonne legge che Mordechai gli salvò la vita dal complotto di due ministri e da quel momento la vicenda assume un aspetto diverso non solo nei fatti ma anche nella narrazione, che prosegue fino alla fine su una strada ben definita verso una trama a lieto fine.
È noto come molti aspetti nella Meghillà siano nascosti a partire dal nome stesso di D-o che non vi appare, come suggerisce il nome stesso di Ester “Anokhi haster astir –
“Io nasconderò il mio volto…” (Deut. 31:18). Una delle spiegazioni possibili risiede nel fatto che gli ebrei dell’epoca hanno deliberatamente deciso di abbandonare D-o, riponendo la loro fiducia in un re e nel suo governo, apparentemente benevoli nei loro confronti. Il caso e la confusione sono gli elementi che permeano la prima parte della Meghillà, a partire da quando “dopo questi avvenimenti, il re Achashverosh innalzò Haman…” (Ester 3:1); chi era costui? Da dove arriva?  I Maestri spiegano che “dopo gli avvenimenti narrati” – l’orgogliosa partecipazione degli ebrei al banchetto e la scelta di Ester come regina che assicurava ulteriore tranquillità – appare questo Haman che viene lasciato libero di agire a suo piacimento. Haman è il risultato ovvio della situazione in cui gli ebrei si erano messi. Non è una coincidenza il fatto che Haman stesso usi “il caso e la sorte” (Meghillà 3:7)  per decidere quando colpire mentre probabilmente, una volta ottenuto l’avvallo del re, avrebbe anche potuto agire subito. I Maestri spiegano che mentre l’ebreo è guidato da D-o, il resto del mondo è guidato dalla sorte; ma quando l’ebreo abbandona la strada della Torà viene anch’egli lasciato al caso e al destino. Troviamo riferimenti a ciò nella Torà stessa: negli avvertimenti citati in Bekhukkotài, la parola “keri” si riferisce all’occasionalità con cui gli ebrei servono D-o, e la stessa occasionalità con la quale di rimando D-o si occuperà di loro (Levitico 26:23,24…). La Torà poi ci descrive il modo in cui D-o si rivela al profeta Bilàm, ossia sempre in maniera temporanea e occasionale (Numeri 23:4 e commento di Rashì).
Quando gli ebrei abbandonano D-o, questi si “nasconde” esattamente come avviene nella vicenda di Ester e di conseguenza il mondo e la vita degli ebrei stessi vengono gestiti dal caso, lasciando tutto nel caos. Solo dopo il profondo pentimento del popolo, il digiuno, il rinnovato amore per la Torà, D-o torna a rivelarsi e si risveglia dal suo torpore, tornando ad occuparsi in maniera amorevole e diretta del suo popolo e salvandone… le sorti.

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Terumà 5773

Hashavua

“Mi faranno un  Santuario ed Io risiedero in loro ” (Shemòt 25, 8). I Maestri c’insegnano che il Santuario veniva chiamato anche Bait – casa. Da questo s’impare che la casa e quindi di conseguenza la famiglia, sono il luogo dove è possibile far discendere e risiedere la Shekhinà – la presenza Divina. I Maestri ci insegnano che quando un’uomo ed una donna si uniscono per creare una nuova creatura la Shekhinà discende in quel luogo, in quel momento. E che tre sono i partners nella creazione di una nuova creatura, l’uomo la donna e Dio. Questa spiegazione puo essere rafforzata da questo verso, è interessante notare che la Torà scrive: betocham – in loro, aggiungendo la lettere bet come articolo, avrebbe potuto scrivere tocham che ha il medesimo significato. La lettera bet ha come valore numerico due,  spostando quella lettera dopo la parola tocham, è possibile leggere  il verso: Mi faranno un  Santuario ed Io risiedero tra loro due, tra “moglie e marito”.

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