Shabbàt

Il giorno che dà senso a tutti gli altri

Rabbinato centrale Milano

Parashòt

Mishpatìm – Shekalìm 5773

Hashavua

“… Un occhio per un occhio …” (Shemòt 21, 27).

I Maestri del Talmùd ci insegnano (Baba Kama 84a) che questa frase non significa che una persona debba rimuovere l’occhio della persona che lo ha ferito o danneggiato. Colui che ha danneggiato l’occhio del suo compagno deve ripagare il valore di quell’occhio. Il Gaòn di Vilna ci insegna che nel verso stesso vi è questa spiegazione. Se la Torà avesse inteso “occhio per occhio” avrebbe scritto ain beàd ain e non ain tàchat ain – occhio sotto occhio, come invece è scritto. Secondo l’ordine dell’alfabeto ebraico le lettere che seguono e sono “sotto” quelle della parola ain – occhio (ain, yud e nun, sono le lettere pei, kaf e sàmekh che combinate tra loro formano la parola kèsef – denaro. La parola tàchat – “sotto” ci insegna che se una persona danneggia l’occhio di un’altro deve ripagarlo con denaro.

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Yitrò 5773

Hashavua

“Si mossero da Refidìm giunsero nel Sinài, e si accamparono nel deserto…” (Shemòt 19, 2).

Il grande commentatore della Torà Rabbi Selomò Itzhakì, conosciuto come Rashì, dice a proposito di questo verso: “Israele si accampò di fronte al monte come un sol uomo, concorde e in armonia”. Rabbì Menachem Mendel Schneerson, settimo Rebbe di Lubavitc e fondatore del movimento Chabad, aggiunge dicendo: “In tutte le altre tappe dove il popolo d’Israele si accampò la Torà ci riporta di mal contento e di insurrezione, ma in questa circostanza in cui stava per essere donata la Torà l’unione del popolo fu unica, grazie proprio alla particolarità di quell’evento”.

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Beshallàch-Shirà 5773

Hashavua

“E le mani di Moshè erano pesanti; Aharòn e Chur presero una pietra, gliela misero sotto e lui vi si sedette sopra. Aharòn e Chur sostennero le sue mani, uno da un lato e uno dall’altro …” (Shemòt 17, 12).

Il Grande Admòr Rabbì Israel Alter di Gur, conosciuto come Bet Israel spiega perché Moshè si mise a sedere. La Ghemarà nel trattato di Shabbàt (92a) ci dice che l’altezza di Moshè era di 10 ammòt – 10 cubiti. Se Moshè fosse rimasto in piedi, sarebbe stato impossibile per Aharòn e Chur supportargli le braccia. Quindi lo mettono a sedere su di un masso. La Ghemarà in Taànìt (11a) si domanda perché Moshè sceglie di sedersi su una dura pietra invece che su un morbido cuscino. Moshè disse: “Fino a che il popolo d’Israele è in sofferenza anche io soffrirò”. Da questo impariamo che chiunque assume su se stesso il dolore dello tzibbur – il pubblico, meriterà di vedere la consolazione di questo.

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Vaerà 5773

Hashavua

I nostri avi in Egitto furono schiavizzati per secoli, oppressi, vilipesi; i loro figli condannati a morte, le mogli e le figlie costrette a vivere nel terrore.
Un giorno, si presenta qualcuno con credenziali di tutto rispetto che inizia a fare loro promesse di libertà; Moshè portava loro il messaggio divino della redenzione imminente e la sicurezza di una terra fertile in cui abitare. In questa parashà la risposta dei figli d’Israele è: “E loro non ascoltarono Moshè per la loro ristrettezza di spirito e per il duro lavoro.
I nostri Maestri spiegano che il versetto non può essere interpretato solo in maniera letterale e danno una spiegazione particolarmente profonda: i figli d’Israele non erano in grado di cogliere il mesaggio di salvezza divino trasmesso da Moshè, non solo a causa dell’enorme sforzo fisico cui erano sottoposti, ma anche e soprattutto per il fatto che “mancavano di spirito”. In altre parole, l’aver sofferto in schiavitù per così tanto tempo, avrebbe tolto loro la capacità di avere fede, di credere che la libertà fosse ancora qualcosa di realmente raggiungibile. Inoltre mai nella storia dell’Egitto un singolo schiavo era riuscito a scappare; come sarebbe stato possibile far uscire un’intera nazione? Capita a tutti di essere talmente persi nella propria mediocrità da non vedere nemmeno la più piccola possibilità di cambiare le cose e di perdere la voglia di combattere.
Un grande Maestro chassidico, Reb Mendel Futerfas, era solito dire: se perdi i tuoi soldi, non hai perso nulla; i soldi comunque vanno e vengono. Se hai perso la salute, hai perso metà di te stesso. Se hai perso la voglia di combattere, sei finito”.
Moshè non era un sognatore: egli riportò in vita uno spirito nuovo a una nazione di schiavi, grazie anche ai miracoli divini. Capita a tutti di essere tristi, a volte anche un poco depressi. Perdere lo spirito invece, è una cosa che non ci possiamo permettere.

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Vayiggàsh 5773

Hashavua

“Disse Israele a Yosèf: posso anche morire questa volta …” (Bereshìt 46, 30).

Il grande commentatore italiano Rabbì Ovadià Sforno commenta questo verso dicendo: Sono stato salvato da altre tribolazioni, ma dopo mi hanno circondato mali (Salmi 40, 13): Ora che sono stato salvato dall’angoscia per te, dopo aver visto il tuo volto, sia la volontà (dell’Eterno) che possa morire in questa salvezza e che ad essa non si aggiunga altra sofferenza.

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