Shabbàt

Il giorno che dà senso a tutti gli altri

Rabbinato centrale Milano

Parashòt

Bereshìt 5773

Hashavua

“L’Eterno, il Signore, plasmò l’uomo  prelevando polvere dal suolo, e soffiò nelle sue narici un alito di vita. Così l’uomo divenne un essere vivente …” (Bereshìt 2, 7).

Il grande commentatore italiano Rabbì Ovadià Sforno commentando questo verso ci fa notare che il Santo Benedetto Egli Sia, nel creare l’uomo gli infonde un’anima vivificante, pronta a ricevere l’immagine di Dio, come è scritto (Giobbe 32, 8): “E il soffio dell’Onnipotente li fa intelligenti”. Tuttavia secondo Rabbì Ovadià  l’uomo fu soltanto un essere vivente, incapace di parlare fino a quando fu creato ad immagine e somiglianza di Dio.

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Pinechàs 5772

Hashavua

“Si presentarono allora le figlie di Tzelofchàd” (Bemidbàr 27, 1).

La Parashà racconta della richiesta delle figlie di Tzelofchàd di avere in eredità una parte della terra d’Israele. La loro richiesta riceve da Dio una risposta positiva. Secondo il Midràsh ciò che ricevono le figlie di Tzelofchàd è un premio per la fede dimostrata. Di che fede si tratta? Si tratta apparentemente  della semplice richiesta di godere di un’eredità. Per capirlo dobbiamo tenere conto del momento in cui, secondo il Midràsh, avviene tale richiesta. E’ il momento in cui gli esploratori tornano dalla terra d’Israele affermando che essa divora i suoi abitanti e che è impossibile conquistarla. Il popolo ebraico reagisce alle parole degli esploratori chiedendo di tornare in Egitto. Proprio in questo momento le figlie di Tzelofchàd chiedono di aver parte nella spartizione della terra d’Israele. Rav Mordechài Ilan afferma che le azioni dell’uomo vengono valutate e giudicate non solo in base all’azione stessa ma considerando il momento in cui vengono compiute. Una semplice richiesta di eredità da parte delle figlie di Tzelofchàd diventa così uno straordinario atto di fede.

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Balàk 5772

Hashavua

Questa parashà racconta di Bil’am, un profeta non ebreo con un potente potere che, per due volte, cerca di maledire il popolo di Israele ma per due volte D-o mette nella sua bocca parole di benedizione. Anche un terzo tentativo si conclude però con un repentino cambio di atteggiamento da parte sua: egli sta in cima alla collina e, ammirando l’accampamento dei figli di Israele, pronuncia una famosa benedizione: “Come sono belle le tende di Giacobbe… sono come dei giardini sulle rive di un fiume, come erba fragrante piantata da D-o”.
Rashì spiega che Bil’am fu colpito dal vedere come erano disposte le tende all’interno del campo, poiché da ciò si percepiva un’atmosfera di modestia e rara privacy. Gli ingressi delle tende  erano disposti in modo che nessuno potesse vedere nella tenda del vicino. Le parole di Bil’am da secoli fanno parte della liturgia quotidiana e rappresentano una delle basi dell’ebraismo: la modestia. La modestia coinvolge uomini e donne, cose e vestiti e perfino i comportamenti e il modo di parlare. Oggi viviamo nell’era della comunicazione, che di per sé è una cosa positiva: ma dobbiamo porci dei limiti. Dobbiamo ricordarci di applicare delle regole, tenendo conto che ciò che noi diciamo può arrivare molto lontano. Le tende rappresentano la precarietà ed è ciò che colpì Bil’am, ossia il fatto che pure in quelle condizioni di scarsa stabilità, la modestia aveva assunto un ruolo fondamentale.

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Kòrach 5772

Hashavua

“Troppo onore vi siete presi per voi, dal momento che tutta l’assemblea è composta da uomini santi – consacrati …” (Bemidbàr 16, 3).

Ci fa notare un Maestro dell’ebraismo italiano Rabbì Shemuèl David Luzzatto, conosciuto con il suo acronimo Shadàl, che la rivolta di Kòrach e del suo gruppo è legata alla costruzione e alla consacrazione del Mishkàn– Tabernacolo. Secondo Kòrach dopo essere stato innaugurato il Mishkàn e dopo essere state date le regole concernenti il servizio divino tutti i figli d’Israele sono da considerarsi adatti a tale servizio. Quindi secondo il pensiero di Kòrach ogni ebreo può essere  cohen – sacerdote, o Navì– profeta, proprio perché sono tutti santi. A questo punto Kòrach, rivolgendosi a Moshè e ad Aharòn fa le sue rimostranze, dicendo di non aver più bisogno di loro facendo pensare, per gelosia, tutto l’onore che sino a quel momento era stato dato loro dal popolo. Come è scritto: “Troppo onore vi siete presi per voi …”.

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Beha’alotekhà 5772

Hashavua

“Quando nelle vostre terre andrete a fare una guerra contro il nemico che vi opprime … ” (Bemidbàr 10, 9).

Rabbi Yeshaià Horowitz Halevì, conosciuto come Shlàha-Kadòsh, dice a proposito di questo verso: Sappi che il verso nel dire “andrete a fare una guerra contro il nemico che vi opprime” non si riferisce solo al nemico esterno, cioè quei popoli con cui  Israele si scontrerà, bensì vuole ricordare un altro nemico, un nemico interiore, un nemico “che vi opprime” cioè lo Yetzèr harà – l’istinto al male, che ci distrae e che devia la nostra strada, e ci induce al peccato. È per questo che nel verso non è scritto: “Quando andrai a fare una guerra sulla vostra terra” bensì è scritto “Quando andrete …” al plurale. Questo per insegnarci che la guerra dell’uomo contro lo Yetzèr harà è una guerra continua che non termina se non con la fine dell’uomo.

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