Shabbàt

Il giorno che dà senso a tutti gli altri

Rabbinato centrale Milano
SH-Bambini

Chi non lavora non fa festa

Tratto da “Il giornale Per Noi” (Midrashim, Morashà – 1996)

Raccontato da Giacoma Limentani – Illustrato da Emanuele Luzzati

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Al tempo della dominazione romana viveva in Palestina un grande rabbino che si chiamava Shim’òn bar Yochài. A Rabbì Shim’òn non piaceva come i romani amministravano il paese, era stanco dei loro soprusi, delle loro tasse e del loro modo di concepire la vita e non ne faceva mistero. La voce si sparse, giunse all’orecchio dell’imperatore e l’imperatore romano lo condannò a morte insieme a suo figlio Rabbì Eliézer.

Quando Rabbì Shim’òn seppe della condanna, prese con sé suo figlio e insieme a lui andò a nascondersi in una caverna sperduta fra i monti, dove c’erano una sorgente d’acqua e un albero di carrube.

Fuggendo da casa, Rabbì Shim’òn e Rabbì Eliézer portarono con sé soltanto la Torà e, una volta arrivati nella caverna, ringraziarono Dio che aveva creato per loro un asilo sicuro dove c’era anche da mangiare e da bere. Dopo aver ringraziato Dio si tolsero gli abiti, li appesero all’albero perché non si sciupassero e fecero due buche nella sabbia che copriva il pavimento della caverna. Si infilarono quindi nelle buche, si coprirono ben bene con la sabbia in modo da lasciare scoperte solo la testa, le spalle e le braccia e si misero a studiare Torà.

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Soltanto lo shabbàt Rabbì Shim’òn e Rabbì Eliézer uscivano dalle loro buche e indossavano gli abiti per celebrare la festa, gli altri giorni stavano sempre sepolti nella sabbia a studiare Torà e studiando dimenticavano il mondo e i suoi pericoli. Così erano felici.

Passarono dodici anni e allo scadere del dodicesimo anno due uomini che passavano per caso da quelle parti si fermarono a parlare fuori dell’ingresso della caverna:

– Bisognerebbe informare Rabbì Shim’òn e Rabbì Eliézer che l’imperatore è morto e la condanna contro di loro è stata revocata.

– Già, ma come si fa ad avvertirli? Nessuno sa dove si sono rifugiati.

I due uomini ripresero la loro strada e i due rabbini che li avevano sentiti, emersero dalle buche, indossarono gli abiti e uscirono all’aperto.

La prima cosa che videro fu il cielo e se ne rallegrarono. Poi abbassarono lo sguardo e videro i campi dove i contadini aravano e seminavano. Uno spettacolo usuale in tutte le campagne, che però ai loro occhi apparve come un insulto.

Per capire questa strana reazione dei due rabbini bisogna sapere che in quei dodici anni essi avevano vissuto non solo fuori da questo mondo, ma immersi in un mondo meraviglioso, eccelso, sublime, nel quale si erano addentrati sempre più e dove le esigenze della vita terrena erano per loro scomparse. Col continuo studio in quei dodici anni padre e figlio avevano raggiunto vette altissime e nella preghiera avevano assaggiato le ineffabili delizie del mondo a venire. Insomma, avevano passato dodici anni in un eterno sabato.

– Guarda quanto è sciocca questa gente che pensa soltanto a coltivare per poter mangiare e lavorando la terra spreca ore preziose che potrebbe dedicare allo studio! Guarda questi sciocchi! Essi non hanno ancora capito che al momento del bisogno Dio provvede a tutto. A noi non ha forse fatto trovare una grotta con un albero di carrube per sfamarci e una fonte per dissetarci?

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Così si dissero l’un l’altro i due rabbini e il loro sdegno contro i contadini fu tale, che qualsiasi cosa guardarono prendeva fuoco, bruciata dal fuoco dei loro occhi. Mentre i contadini scappavano terrorizzati, una voce gridò dal cielo:

– Shim’òn ed Eliézer, che cosa fate! A questo dunque vi ha portato lo studio di cui vi gloriate tanto? Credete dunque di poter distruggere l’equilibrio del mondo? Tornatevene nella vostra caverna e restateci altri dodici mesi.

Passato che fu il tempo imposto dal cielo, Rabbì Shim’òn e Rabbì Eliézer uscirono nuovamente dalla loro caverna.

Quei dodici mesi erano stati proficui per Rabbì Shim’òn il quale si era imposto di pensare anche ai problemi della terra e a forza di pensare aveva capito molte cose. Rabbì Eliézer, invece, che si era lasciato andare a meditazioni sempre più eccelse, tornò a infuriarsi vedendo i contadini che lavoravano nei campi. Fu così che tutto ciò che Rabbì Eliézer guardava prendeva fuoco, per tornare intatto come prima appena Rabbì Shim’òn guardava le fiamme.

Comunque sia, a forza di accendere e spegnere incendi, il procedere di padre e figlio si faceva faticoso. Fortuna volle che incontrassero un vecchio che si dirigeva verso la città portando due fasci di mirto. Prima che Rabbì Eliézer potesse incendiare anche quelli, Rabbì Shim’òn fermò il vecchio e gli chiese:

– Perché hai raccolto quel mirto. Dove lo porti e a che cosa ti serve?

– L’ho raccolto per festeggiare lo shabbàt, perché il mirto profuma come il paradiso terrestre, e lo sto portando a casa mia dove di shabbàt c’è il paradiso.

Rabbì Shim’òn ringraziò il vecchio, quindi si rivolse al figlio e gli disse:

– Hai capito, figlio mio, perché bisogna anche lavorare i campi? Perché se non si lavora non si hanno tutte le cose belle e buone che servono a festeggiare degnamente lo shabbàt. Lo shabbàt è una delizia, ma per gustarlo appieno bisogna lavorare tutti gli altri giorni della settimana.

E padre e figlio, finalmente sereni, si diressero verso la loro casa. Lungo la strada raccolsero quanto più mirto e quanti più fiori poterono per festeggiare anch’essi lo shabbàt come va festeggiato su questa terra.

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