Shabbàt

Il giorno che dà senso a tutti gli altri

Rabbinato centrale Milano
SH-Pensiero

Havdalà – Il senso della separazione

Rav Roberto Colombo

Havdala 2

Il testo della Havdalà

“Io, primo a Sion, annuncerò: eccoli qua. E darò a Gerusalemme un annunciatore”. Amén. “Non ti rallegrare, o nemico, della mia disgrazia. Se sono caduto mi alzerò; se siedo nelle tenebre Dio è luce per me”. “La luce è spuntata per il giusto e la gioia per i retti di cuore”.

“Alzerò un calice per inneggiare alla salvezza ed invocherò il nome del Signore”

“Deh, o Signore salva, deh

Deh o Signore da prosperità, deh”.

Facci prosperare. Prospera la nostra strada. Rendi proficuo il nostro studio e manda benedizione, sollievo e felicità per ogni opera delle nostre mani com’è scritto: “Egli otterrà benedizione dal Signore e giustizia dal Dio che salva”.

“Per gli ebrei vi fu luce, gioia, felicità e onore” ed è inoltre scritto: “Davìd riusciva bene in tutte le sue imprese poiché il Signore era con lui”. Così sia sempre per noi.

Cosa pensano i signori?

Per la vita!

Benedetto sei Tu o Signore, Dio nostro Re del mondo che crea il frutto della vite.

Benedetto sei Tu o Signore, Dio nostro Re del mondo che crea le specie di odori

Benedetto sei Tu o Signore, Dio nostro Re del mondo che crea i luminari del fuoco

Benedetto sei Tu o Signore, Dio nostro Re del mondo che distingue tra il sacro ed il profano, tra la luce ed il buio, tra Israele e le altre nazioni e tra il sabato ed i giorni feriali.

Benedetto Tu o signore che distingue il sacro dal profano.

Prefazione

Come l’inizio dello Shabbàt è segnalato da alcuni atti che devono essere eseguiti secondo norme rigorosamente codificate (accensione dei lumi e il Kiddùsh) che ne sottolineano l’importanza e la sua particolare sacralità, così la sua fine viene accompagnata da una breve cerimonia di origine antichissima chiamata Havdalà (separazione) poiché marca la differenza tra il sabato che sta per terminare e i giorni feriali che stanno per iniziare. Essa consiste nel recitare quattro brevi benedizioni: su una coppa di vino, su delle erbe profumate, sulla luce del fuoco e sulla divisione tra Israele e gli altri popoli.

Capire il vero significato di questo rito, mantenuto e osservato da secoli con precisione anche per l’atmosfera e la suggestione che ne deriva, è sicuramente un impresa ardua.

In questo breve lavoro, che vuole essere un invito ad una ricerca più approfondita, verranno riferiti e brevemente commentati alcuni pensieri espressi dai nostri Maestri riguardo all’origine, all’istituzione della Havdalà e sul significato dei versetti e delle benedizioni che la compongono. Si è poi ritenuto opportuno riportare in appendice una serie di norme esplicative per permettere anche a chi avesse dei dubbi, di adempiere in modo corretto a questo precetto.

La Havdalà: Il senso della separazione

Nella tradizione ebraica si trovano a volte dei piccoli riti che racchiudono però grandi significati. Tra questi un posto particolare spetta alla cerimonia della havdalà che fin dall’antichità viene recitata con solennità da tutto il popolo ebraico, seppur con leggere varianti.

Il verbo BaDàL (dividere, separare), dal quale deriva appunto il termine Havdalà, è usato per la prima volta nella Torà in Genesi 1°, 4 in riferimento alla separazione tra la luce ed il buio voluta da Dio nel corso del primo giorno della creazione1. Per quanto l’interpretazione più comune reputi che con tale scissione si decretasse la nascita del giorno e della notte, da una lettura più attenta della Scrittura si potrà ben notare che della creazione della luce e del buio, e dunque della loro divisione, già si parla nella Torà in Genesi 1°, 2-3, per cui il versetto in questione diverrebbe così un inutile reiterazione di un fatto appena narrato (’Ovadià da Bertinoro – ’Amàr neké)

I Maestri del Midràsh e del Talmùd (Genesi Rabbà III 6, TB Chaghigà, 12a) ritennero perciò che il senso del versetto dovesse in realtà essere un altro:

“Dio vide che gli empi non sarebbero stati degni di godere della luce e perciò la pose in disparte per i giusti in vista del mondo futuro”.

Le tenebre, dunque, non rappresenterebbero qui la notte o un oscurità dovuta ad un fenomeno naturale, ma la fioca luce rimasta nel mondo terreno dopo che Dio ne separò una parte per illuminare con intensità il mondo futuro destinato agli tzaddikìm.

Ma per la tradizione ebraica (TB Berakhòt, 57b) un po’ di questa luce ritorna nell’animo dell’ebreo alla vigilia di ogni Shabbàt, per permettergli di assaporare almeno per un giorno alla settimana una piccola parte della vera beatitudine che il Creatore riservò per l’Olàm Habbà.

Per sei giorni l’uomo ha dovuto compiere ogni tipo di opera creativa nel mondo della materia, ma cessando ogni attività produttiva egli libera se stesso dalla schiavitù del lavoro e può così dedicare un intero giorno allo studio alla meditazione ed al riposo.

I servi assumono poi gli stessi diritti ed i medesimi poteri dei loro padroni, così il riposo sabbatico non aiuta solo a ritrovare se stessi ma anche a ricostruire quel rapporto con il prossimo che la fremente attività operativa tende sempre più a guastare. A ragione fu scritto che:

“Il riposo dello Shabbàt è la radice di ogni progresso spirituale e sociale ed è legato ai pensieri ed alle aspirazioni più elevate dell’uomo: Dio, la dignità dell’animo umano, la libertà e l’uguaglianza di tutti gli uomini, la supremazia dello spirito sulla materia” (Grunfield).

Insomma, di Shabbàt l’individuo, che per tutta la settimana è rimasto schiacciato dalle macchine e dalle produzioni lascia il posto ad un uomo nuovo che recupera la vera dimensione dell’essere2.

Alla fine della festa però, la vita normale ricomincia ed ogni uomo deve separarsi da quella atmosfera di pace che lo aveva accompagnato per tutta la giornata e ritornare alla propria consueta occupazione.

Ma lo Shabbàt appena trascorso non può non aver lasciato nell’animo ebraico un indelebile segno che influenzerà il modo di pensare e di agire dell’Ebreo nel corso dell’intera settimana lavorativa.

Insomma, lo Shabbàt non passa come un giorno qualunque ma, al contrario, esso dona a colui che lo apprezza e lo osserva in tutta la sua sacralità una luce di serenità che continuerà anche dopo la sua conclusione; è proprio a questo cambiamento interiore che ognuno di noi fa riferimento attraverso il rito della Havdalà.

Nel momento in cui accendiamo la torcia e recitiamo la benedizione esprimiamo in modo simbolico che quella “luce” che pochi istanti prima era nel nostro cuore e nel nostro spirito, può essere materializzata, esternata attraverso le nostre azioni tese sempre e comunque a migliorare il rapporto con noi stessi, con coloro che ci sono vicini e a vivere in modo vivo e coinvolgente la nostra tradizione ebraica.

Le fonti rabbiniche ci potranno aiutare a capire tale pensiero. Secondo l’Aggadà, l’accensione del fuoco fu il primo lavoro compiuto da Adamo alla fine del primo Shabbàt della creazione. Fino ad allora, nel mondo aveva continuato a brillare una forte luce, ma con la fine della festa l’uomo rimase improvvisamente al buio e fu preso da una grande paura e dallo sconforto. Dio dunque gli concesse l’intelligenza ed egli raccolse due pietre che percosse una contro l’altra fino a che non ne scaturì il fuoco la cui luce rincuorò lo spirito di Adamo che sentì il bisogno di recitare una benedizione di ringraziamento (TB Pesachìm, 54a).

L’oscurità e lo sconforto possono essere qui interpretati come la paura dell’uomo che dopo il sacro riposo dello Shabbàt si vede nuovamente proiettato nella buia vita di tutti i giorni. Ma anche allora egli non deve pensare di essere abbandonato a se stesso poiché Dio continuerà a ad aiutarlo e a confortarlo di fronte a qualsiasi difficoltà. A lui è comunque lasciato il compito di realizzare delle attività creative che non devono mai contrastare il volere divino.

La luce, già pensata dal Creatore alla vigilia dello Shabbàt (TB Pesachìm, 53b) e scoperta da Adamo solo con la fine della festività, sta perciò a significare che solo l’azione tesa a realizzare ciò che Dio chiede all’essere umano può essere cagione di benedizione e vera dimostrazione della sacralità dell’intelligenza umana (Maharshà).

Così ancora oggi attraverso la Havdalà, nel momento, cioè, in cui ogni ebreo si separa da quella luce che lo caratterizza nel corso dello Shabbàt, egli si prepara al rientro nel mondo della produzione proclamando con l’azione e con la parola (l’accensione del lume e la relativa benedizione) che, come per Adamo, tutto il suo lavoro nel corso dell’intera settimana, grazie all’influenza dello Shabbàt, sarà sempre accompagnato dall’intento e dal desiderio di completare positivamente l’opera della creazione che, come vuole il versetto della Torà, Dio ha solo iniziato affinché l’uomo la elaborasse nel corso della storia (Genesi 2°, 3).

Il precetto della Havdalà: la sua origine

Per quanto, come si è visto, il significato della Havdalà vada ricercato già nelle prime parole della Genesi, la sua origine come rituale fu in passato oggetto di lunghe e profonde discussioni. Tra i Maestri vi era infatti chi riteneva che la sua origine si dovesse ad un antica istituzione rabbinica (R. Tam, R. Ashèr e Meirì) mentre altri, come il Maimonide e Aharòn Halevì l’autore del “Séfer Hachinùkh”, ritenevano che la Havdalà fosse un vero e proprio precetto comandato dalla Torà.

Leggiamo a proposito le parole del Rambàm che bene esprimono quella che ormai da secoli sembra essere la posizione più accettata dall’ebraismo:

Il precetto numero 155 è il comando che abbiamo ricevuto di dire nel giorno di sabato, quando entra e quando esce, delle frasi che ricordino la grandezza e l’onore di quel giorno e che esso è distinto dagli altri giorni che lo precedono e lo seguono; esso è espresso dal detto di colui che va esaltato: “Ricorda il giorno del sabato per santificarlo” (Esodo 20°, 8), cioè: ricordalo con il ricordo della santificazione e della grandezza e questo è il precetto del kiddùsh.

…Ed i Maestri hanno detto esplicitamente: “Ricordalo con il vino” (TB Pesachìm, 106a); ed inoltre hanno detto: “Santificalo quando entra e santificalo quando esce”, cioè anche la Havdalà è una parte del ricordo del sabato, che ci è stato comandato…

Tale commento ci spinge ad alcune doverose riflessioni.

Innanzi tutto si deve sottolineare che il kiddùsh e la Havdalà sono entrambi dei precetti codificati ed assumono pertanto la medesima importanza.

Purtroppo al giorno d’oggi in molte famiglie ebraiche, per quanto si sia mantenuta viva l’usanza di adempiere alla tradizionale mitzvà del kiddùsh, non sempre si tiene nel dovuto conto anche della mitzvà della Havdalà; e questa è sicuramente una grave trasgressione perché, come si è visto, entrambi i precetti si ricavano dallo stesso versetto della Scrittura.

Come si può inoltre notare dalle parole del Rambàm, il precetto della Havdalà non richiede in realtà degli atti specifici, bensì un riconoscimento puramente verbale della differenza tra il sabato e gli altri giorni della settimana.

Il Talmùd Babilonese, in contrasto con quanto scritto nel Talmùd Gerosolimitano (Berakhòt, cap. 5-2) ritiene infatti che originariamente la cerimonia della Havdalà fosse composta esclusivamente da un breve brano di ringraziamento a Dio che desidera la distinzione tra il sacro ed il profano, della luce dalle tenebre e del popolo ebraico dagli altri popoli, inserito dai Maestri della “Magna Congregazione” nella quarta benedizione della ’Amidà serale da recitare all’uscita dello Shabbàt. Solo successivamente, dunque, quando migliorò la condizione economica del popolo ebraico e per permettere anche ai componenti della famiglia che non avevano l’obbligo (per esempio le donne) o la capacità di recitare la preghiera serale si istituì che la Havdalà dovesse essere recitata anche su una coppa di vino ed accompagnata dalle benedizioni sugli odori sui lumi e sulla sacralità del popolo ebraico. (TB Berakhòt, 33a)

Comunque, ancora all’epoca di Shammài e Hillèl si trovano tra i Maestri delle due scuole diverse opinioni circa l’esatta formula della benedizione da recitare sui lumi (Mishnà Berakhòt 7°, 5) perciò si deve ritenere che solo in epoca talmudica, quando ormai l’opinione di Hillèl prese il sopravvento, l’ordine delle benedizioni della Havdalà e la loro struttura trovò una forma definitiva e comunemente accettata.

Per quanto concerne, inoltre, l’usanza nata nel tardo medioevo di recitare la Havdalà nel Bèt Hakenèsset dopo la preghiera del sabato sera, ciò è dovuto alla necessità di dare anche ai poveri o a quanti erano sprovvisti di vino kashèr la possibilità il rito nel modo prescritto dai maestri. Al giorno d’oggi, non essendo più il vino kashèr una bevanda rara e pregiata come un tempo, è bene che anche chi ha assistito alla cerimonia della separazione al Bèt Hakenèsset la ripeta nella propria abitazione per terminare assieme ai familiari il giorno dello Shabbàt con delle benedizioni e con canti di gioia.

I versetti introduttivi

Le benedizioni della Havdalà sono precedute da alcuni versetti che hanno come tema principale l’evento messianico. La tradizione ebraica ritiene, infatti, che l’uomo abbia la reale possibilità di avvicinare il tempo della venuta del Messia proprio attraverso le azioni con le quali egli sacralizza la sua vita quotidiana. Dunque, con l’inizio della nuova settimana, viene chiesto a Dio un aiuto affinché l’impegno lavorativo che ognuno dovrà affrontare non sia cagione di trasgressioni che, sebbene non provochino l’allontanamento della redenzione, (TB Sanhedrìn, 97a) non hanno però neppure la possibilità di agevolare il suo arrivo.

Io, primo a Siòn, annuncerò: Eccoli qua. E darò a Gerusalemme un annunciatore”. (Isaia 41°, 27)

Difficile capire il vero senso di queste parole del Profeta. Alcuni leggono in esse la promessa che Dio stesso annuncerà l’arrivo dei tempi messianici alla terra di Siòn e a Gerusalemme dicendo: “Eccoli qua” ossia: “Ecco! I figli di Israele stanno tornando nella loro terra” (R. Artom).

Dio così, è il primo a desiderare “la fine dei tempi” e dunque non aspetta altro che un piccolo passo del popolo ebraico per inviare al mondo il Redentore. Una famosa leggenda talmudica esprime tutto ciò molto chiaramente:

Un giorno Rabbì Yehoshùa’ ben Levi interrogò il profeta Elia: “Quando verrà il Messia?”

Elia rispose: “Va a chiederlo a lui”

Rabbì Yehoshùa’ disse: “Dove lo posso trovare?”

Elia rispose: “Alla porta di Roma”

“E come lo riconoscerò?”(chiese Rabbì Yehoshùa)

“Elia rispose: “Egli siede tra i lebbrosi mendicanti. Ma mentre questi si tolgono e si rimettono le bende tutte in una volta il Messia si toglie le bende a una a una e se le rimette una alla volta. Egli pensa che Dio lo possa chiamare in ogni momento a portare la redenzione e si tiene sempre pronto.”

Rabbì Yehoshùa’ andò da lui e lo salutò: “Pace a te, Maestro!”

“Pace a te, figlio di Levi” – rispose.

“Quando verrai Maestro?”

“Oggi.”

Più tardi Rabbì Yehoshùa’ ben Levi si lamentò con Elia: “Il Messia mi ha mentito. Ha detto che sarebbe venuto oggi e non è venuto.”

Ma Elia disse: “Non l’hai capito bene. Egli ti ha citato il versetto: ‘Oggi, se ascolterete la Sua voce!’” (Salmi 95°, 7) (TB, Sanhedrìn 98a)

Per il Malbìm anche i termini “Siòn” e “Gerusalemme” che compaiono nel versetto simboleggiano due momenti particolari della redenzione. Qui “Siòn” non è tutta la terra di Israele, bensì quella parte di Gerusalemme in cui avevano sede il palazzo reale ed il Santuario. “Gerusalemme”, invece, è il resto della città, luogo di ritrovo per tutti gli ebrei. Isaia, così, proclama che con l’arrivo del Messia il Santuario verrà ricostruito, il regno di Davìd ristabilito e che tutto Israele si riunirà nella sua terra in pace.

Non è dunque al denaro o all’agiatezza che si rivolge la mente dell’ebreo all’inizio della settimana lavorativa, ma alla speranza di assistere a tutto ciò che il profeta annuncia con le sue parole e che può avverarsi grazie alle nostre azioni, Amèn.

“Non ti rallegrare, o nemico, della mia disgrazia. Se sono caduto mi alzerò; se siedo nelle tenebre Dio è luce per me”. (Mikhà 7°, 8)

Anche queste parole del profeta Michea, come quello precedenti di Isaia, trattano, anche se in modo meno evidente, dell’evento messianico. Il commento del Midràsh a Salmi 36, 10 ci potrà aiutare a capire il vero significato della “luce divina” di cui quì si parla:

“Avvenne una volta che un uomo accese una lanterna e andò per la sua strada. Ma la luce si spense. Egli riaccese la lanterna ed essa si spense di nuovo. E la cosa continuò così. Ogni qualvolta egli accendeva la lanterna, essa si spegneva.

Alla fine l’uomo disse fra sé e sé: ‘Quanto tempo devo andare avanti ad affaticarmi con questa lanterna? Aspetterò che sorga il sole e poi camminerò alla sua luce’.”

Così avvenne anche agli Israeliti. Erano schiavi in Egitto. Venne Moshè e li liberò. Ma divennero ancora schiavi in Babilonia. Vennero Danièl, Chananià, ’Azarià e Mishaèl e li liberarono. Tuttavia furono nuovamente schiavi in Elàm, in Media e in Persia. Vennero Mordekhài e Estèr e li liberarono. Poi furono schiavi della Grecia e li liberarono i Maccabei. E ora li ha fatti schiavi Roma malvagia.

Oggi gli Israeliti dicono: “Noi ora siamo stanchi di essere schiavi e venir liberati. Non vogliamo più invocare la liberazione attraverso un uomo di carne e sangue ma la redenzione per mezzo del nostro redentore, il Signore degli eserciti, il cui nome è ‘il Santo di Israele’. Ora non vogliamo più pregare affinché un uomo ci dia la luce, ma solo perché il Santo, benedetto sia, ci dia la luce.”

Perciò sta scritto anche: “Infatti Tu sei la fonte della vita; nella Tua luce vediamo la luce” (Salmi 36°, 10). E si legge inoltre “Il Signore è Iddio ed egli ci illumina” (Salmi 118°, 27). (Midràsh Tehillìm 36, 6)

Il senso del versetto e il motivo della sua collocazione nella cerimonia della Havdalà appare dunque chiara. L’ebreo che si appresta ad iniziare la nuova settimana, oltre a ribadire la sua fede nella venuta del Messia ripone tutta la sua fiducia nell’aiuto di Dio e non nell’uomo che per sua natura è fallace e non sempre affidabile.

“La luce è spuntata per il giusto e la gioia per i retti di cuore”. (Salmi 97, 11)

Già abbiamo avuto modo di parlare della luce che, secondo i Maestri, Dio ha destinato ai giusti nel mondo futuro. Vediamo ora la spiegazione dei commentatori tradizionali.

Per Radàk anche questo terzo versetto inneggia alla venuta del Messia. “La luce” e “la gioia” sono già pronte per allietare, in futuro, la vita di coloro che lo meritano. Solo allora il mondo saprà chi è veramente tzaddìk e chi no. Il versetto è così la promessa che ognuno, prima o poi verrà giustamente ricompensato per le azioni compiute nel corso della sua esistenza.

Diverso, invece, il commento di Ibn ’Ezrà. La radice zarà’ che abbiamo qui tradotto con il verbo “spuntare” significa in realtà “seminare”. È questo un verbo usato spesso nella Bibbia in riferimento al lavoro dei campi. Il Salmo promette dunque allo tzaddìk anche la prosperità e la ricchezza poiché Dio lo aiuterà nel suo lavoro. Leggiamo le parole del commentatore:

“Sebbene il giusto seminerà poco, raccoglierà molto”.

Il Malbìm, invece, ritiene che la luce di cui quì si parla accenni alla spiritualità che caratterizza l’animo dei giusti. Grazie ad essa l’uomo retto potrà crescere e sviluppare sempre di più la sua giustizia attraverso lo studio e l’osservanza della Torà così come un seme cresce e si sviluppa grazie all’acqua con cui si nutre.

All’uscita dello Shabbàt ognuno di noi, attraverso questo versetto, chiede a Dio da un lato l’assistenza per le attività che svolgerà nel corso della settimana (Ibn ’Ezrà) dall’altro un aiuto affinché, la fervente attività lavorativa ci permetta comunque di adempiere in modo dovuto al precetto dello studio e dell’osservanza (Malbìm), vero presupposto per poter un giorno godere della ricompensa destinata ai giusti (Radàk).

“Alzerò un calice per inneggiare alla salvezza ed invocherò il nome del Signore” ( Salmi 116, 13)

Si noti che il testo inneggia alla salvezza prima ancora di invocare assistenza, certo del fatto che Dio non lascerà mai per lungo tempo il suo popolo in pericolo (’Etz Yosèf)

Secondo Rav Kuk uno dei motivi che inducono il Creatore ad ascoltare le tefillòt è la nostra certezza che tutto ciò che noi chiederemo troverà una risposta. Non sempre l’ebreo ha questa cieca fiducia nell’aiuto di Dio e ciò lo porta spesso a non recitare con la dovuta kavanà le sue preghiere.

Così, prendendo esempio dal salmista, anche noi chiediamo la salvezza e la prosperità cantando:

“Deh, o Signore salva, deh. Deh o Signore da prosperità, deh”. (Salmi 118, 25). “Facci prosperare. Prospera la nostra strada. Rendi proficuo il nostro studio e manda benedizione, sollievo e felicità per ogni opera delle nostre mani”

con la gioia di chi ha la convinzione che Dio gli rivolgerà la dovuta attenzione. Per cui il versetto

“Egli otterrà benedizione dal Signore e giustizia dal Dio che salva” (Salmi 24, 5)

che bene esprime tale certezza, trova qui la sua giusta collocazione.

“Per gli ebrei vi fu luce, gioia, felicità e onore” (Estèr 8, 16)

Molto è stato scritto su queste parole della Meghillà e non possiamo che riportare qui una piccolissima parte dei commenti dei maestri.

Il Talmùd (TB Meghillà, 16b) ritiene che i vocaboli del versetto non si debbano interpretare alla lettera ma allegoricamente:

Disse Rabbì Yehudà: La “luce”, è la Torà, come è detto: “La Torà è luce” (Proverbi 6, 23). La “gioia” sono i giorni di festa come è detto: “Gioirai nella tua festa” (Deut. 16, 14). La “felicità” è la milà come è detto “Io sono felice per i Tuoi detti”. (Salmi 119, 162)3. “l’onore” sono i tefillìn come è detto: “E vedranno tutti i popoli della terra che il nome del Signore è invocato su di te e ti temeranno” (Deut. 28, 10)4.

Non è difficile dare un senso a questo Midràsh: all’epoca di Mordekhài ed Estèr fu vietato agli ebrei di studiare la Torà, di rispettare le feste, di circoncidere i bambini e di mettere i tefillìn, ma con la vittoria e la liberazione il decreto fu abolito. Perciò per i Maestri Il versetto non parla solo della fine dell’oppressione, ma anche e soprattutto della gioia del popolo ebraico per la rinnovata possibilità di rafforzare il proprio amore per la Torà attraverso l’osservanza delle mitzvòt (R. Bachìa Ibn Pakùda).

Questo commento mantiene ancora tutta la sua attualità: l’indipendenza di Israele si dimostra soprattutto nella possibilità di coltivare e sviluppare la propria cultura e nel mantenere vive le proprie usanze. Il dolore causato da altri non deve impegnare la nostra mente esclusivamente a considerare che cosa è cambiato nei rapporti tra gli uomini, ma anche a pensare al modo in cui superare il dolore stesso, per ricreare quel legame uomo-Dio che dopo ogni persecuzione sembra irrimediabilmente interrotto. In somma il tentativo perpetuato da coloro che nel corso della storia hanno cercato di distruggere fisicamente e moralmente il mondo ebraico non può e non deve essere né lo strumento né il simbolo dell’autodistruzione spirituale del nostro popolo. ll ricordo del pericolo della perdita dei valori ebraici a causa dell’oppressione e del sopruso deve invece servire come incentivo a coltivare la tradizione e le usanze ebraiche. A questo compito è chiamato oggi più che mai il popolo d’Israele che inizia ogni nuova settimana con la viva coscienza che il suo futuro dipenderà soprattutto dalla capacità con la quale esso saprà rafforzare la propria identità culturale.

Ma per il Maharàl di Praga anche questo versetto tratta dei giorni messianici.Egli fa infatti notare che la parola sassòn (felicità) nella Meghillà appare scritta priva della lettera vav per sottolineare che la gioia di cui quì si parla non è vera gioia ma solo una felicità parziale.

“Solo la venuta del Messia” — egli scriveva – “Potrà portare al mondo la vera felicità e fino all’ora ognuno deve trattenere la propria gioia”

“Davìd riusciva bene in tutte le sue imprese poiché il Signore era con lui” (Samuele 24, 14).

È il versetto conclusivo prima di recitare le benedizioni della Havdalà, e può essere considerato la sintesi del contenuto dei versetti precedenti. In esso possiamo leggere le speranze del popolo ebraico nell’aiuto e nella salvezza di Dio e la speranza nella restaurazione del regno di Davìd, rimasto nella tradizione ebraica come esempio di attaccamento a Dio.

Le benedizioni

Che cosa pensano i Signori? (Risposta) Per la vita!

Le due espressioni savrì maranàn (lett. — che cosa pensano i Signori?) e la risposta del pubblico lechaìm (lett.- per la vita!) che precedono le benedizioni del kiddùsh e della Havdalà, sono a tutti note. Meno nota, invece, è la loro origine ed il loro vero significato.

Tali formule, secondo il Midràsh Tanchumà, venivano un tempo pronunciate alla conclusione di un giudizio penale per chiarire l’esito di un processo a carico di un imputato. Leggiamo il Midràsh:

“Quando si faceva un’indagine il Sinedrio usciva seguito dal popolo. E quando tornavano gli chiedevano: I nostri Signori pensano? — savrì maranàn. E loro rispondevano, “se per la vita (cioè un caso di innocenza): Per la vita! — lechaìm”

È ancora il Midràsh Tanchumà, che sembra essere la fonte più antica ed autorevole, a documentare anche il successivo passaggio delle due frasi da un ambito giudiziario alla cerimonia del kiddùsh e della havdalà:

“E così l’inviato del pubblico (chazàn) quando ha in mano la coppa del kiddùsh e della havdalà e ha paura di un veleno dice: Savrì Maranàn e il pubblico risponde: Lechaìm!. Ossia che questo calice sia per la vita”.

Il testo del Tanchumà, come si può notare, lascia aperti alcuni interrogativi. Non è chiaro, infatti, per quale motivo colui che si appresta a recitare una benedizione sul vino debba sentirsi in pericolo e quale senso possa avere per lui, la risposta rassicurante del pubblico che non può essere a conoscenza di presunti e quantomai improbabili veleni mescolati con la bevanda. Il Midràsh, dunque, deve essere a sua volta commentato.

L’uso del vino, con il quale si santificano e si concludono i giorni di festa solenne deve seguire delle norme ben precise contenute in tutti i maggiori testi di normativa ebraica.

Berne in quantità eccessiva può risultare nocivo per la salute e può facilmente portare alla totale perdita di controllo dei sensi. Ma soprattutto fu assolutamente vietato dai chakhamìm il consumo del vino servito per il culto idolatrico o comunque quel vino fatto o manipolato da goìm, per limitare al massimo i rapporti sociali tra ebrei e gentili che potrebbero portare all’assimilazione ed al matrimonio illecito. (Shulchàn ‘Arùkh, Y. D. 123)

Il vino diviene così l’emblema del rifiuto all’assimilazione, perciò la domanda che il chazàn rivolge al pubblico circa la presunta pericolosità della bevanda è in realtà un invito alla riflessione sulla possibilità di perdere un vivo legame con la tradizione ebraica a causa del continuo rapporto con la cultura circostante che può portare all’incapacità di saper mantenere inalterato il sentimento ebraico del popolo d’Israele.

La risposta lechaìm, diviene così l’ufficiale dichiarazione del pubblico ad impegnarsi con responsabilità a mantenere sempre vive le proprie usanze ed il proprio attaccamento alla legge divina.

Benedetto sei Tu o Signore, Dio nostro Re del mondo che crea il frutto della vite.

Il vino nella tradizione ebraica è da sempre simbolo di gioia e con esso si santificano tutte le feste perciò potrà sembrare un controsenso che la Havdalà, che segna la fine dello Shabbàt (e dunque della vera gioia) si reciti proprio su un calice di vino.

Per R. Tzadòk Hakohèn (Commento all’Aggadà) anche la Havdalà può essere considerato un momento gioioso ed in parte simile al kiddùsh del venerdì sera poiché in entrambi i casi vi é il riconoscimento della supremazia dello Shabbàt rispetto agli altri giorni della settimana feriale.

Ma sul motivo dell’istituzione di questa benedizione si potrebbe dare anche un ulteriore risposta. Per i maestri dello Zohar il grave peccato commesso da Adàm Harishòn (il primo uomo) fu quello di essersi cibato di acini d’uva staccati dall’albero della conoscenza del bene e del male, con il semplice intento di assaporare il piacevole gusto del frutto senza però sentire alcun dovere di recitare una benedizione per ringraziare il Creatore.

Egli aveva cioè usato la natura nel modo più comune: se n’era cibato, ne aveva tratto forse la forza per sopravvivere ma non era riuscito a ritrovare nel creato il modo per lodare Dio. Ma se Dio dà all’uomo la possibilità di sbagliare, Egli gli ha pure donato la capacità di rimediare agli errori. Alla fine di ogni Shabbàt, quando l’ebreo deve tornare alla sua consueta attività lavorativa e al suo normale rapporto con il mondo della natura egli si ciba dello stesso frutto che causò la prima trasgressione umana, ma questa volta con l’unico dichiarato intento di recitare una berakhà. Questa breve formula ha così lo scopo di aiutarlo a capire che il suo compito è quello di trovare proprio nella natura, nel campo del lavoro e nei piccoli atti quotidiani, che egli si accinge a compiere, il modo di riconoscere la misericordia e la bontà divina (Séfer Haminhaghìm 117).

Benedetto sei Tu o Signore, Dio nostro Re del mondo che crea le specie di odori

È risaputo che , secondo il Midràsh, con l’inizio di ogni Shabbàt ad ogni ebreo viene donata una seconda anima che egli sarà però costretto a restituire con la fine della festa. I Maestri insegnano che l’anima dell’uomo entra dalle sue narici e da esse fuoriesce per tornare a Dio che l’ha creata, perciò, con l’intento di rinfrancare lo spirito per questa grave perdita, egli odora delle erbe aromatiche.

Benedetto sei Tu o Signore, Dio nostro Re del mondo che crea i luminari del fuoco

Già abbiamo avuto modo di parlare abbondantemente sull’importanza dell’accensione del fuoco alla fine dello Shabbàt. Qui tratteremo brevemente l’origine dell’usanza di guardare le unghie delle mani nel momento in cui si recita la suddetta benedizione.

Secondo alcuni ciò viene fatto in segno di prosperità ed abbondanza. Le unghie crescono in fretta e costantemente. Nell’osservarle durante la benedizione noi chiediamo così a Dio di aumentare sempre di più i componenti del nostro popolo e di accrescere le nostre ricchezze materiali e spirituali (Séfer Haminhaghìm).

Secondo altri l’usanza trae la sua origine da una leggenda rabbinica: quando Adamo accese il fuoco alla fine dello Shabbàt si accorse che il suo corpo era nudo e se ne vergognò. Ma la vergogna per la sua nudità non era altro che la conseguenza del peccato da lui commesso sicché ricordatosi di ciò che aveva fatto si rattristò. Fu allora che guardando la pelle della punta delle dita notò che questa era ancora coperta e per questo si rallegrò e recitò la benedizione del fuoco (Pirké derabbì Eli’ézer, cap. 14). Non è difficile dare un senso a questa storia. Anche colui che commette i peccati più gravi non è mai completamente da rinnegare, poiché in ogni uomo vi è sempre un lato positivo ed è questa considerazione che ci aiuta a non perdere mai la fiducia nell’aiuto e nella misericordia divina che noi chiediamo di rinnovare alla fine di ogni Shabbàt.

Un ulteriore motivo viene fornito dal Midràsh Yalkùt Shim’onì (Par. 723). Le unghie servono al mohèl per rivoltare la pelle del prepuzio del neonato completando così la mitzvà della circoncisione. Osservare le unghie delle mani avrebbe così lo scopo di ricordare la mitzvà della milà, simbolo di tutti i precetti della Torà (Abravanèl) e quindi il dovere di educare i nostri figli all’amore e all’osservanza della tradizione ebraica.

Benedetto sei Tu o Signore, Dio nostro Re del mondo che distingue tra il sacro ed il profano, tra la luce ed il buio, tra Israele e le altre nazioni e tra il sabato ed i giorni feriali. Benedetto Tu o signore che distingue il sacro dal profano.

Solo il popolo ebraico ha il compito ed il dovere di rispettare lo Shabbàt e non le altre nazioni ed è a questa differenza tra Israele ed i gentili che si fa riferimento nella nostra benedizione (R. Tzadòk Hakohèn).

Con questa formula noi ringraziamo Dio per averci donato lo Shabbàt nonostante tutte le difficoltà che possa comportare la sua osservanza poiché, si sa, rispettare lo Shabbàt certamente non è facile ma è proprio nella difficoltà più estreme che il nostro popolo si è distinto per non aver mai abbandonato i comandamenti divini.

Appendice: le norme

Come abbiamo visto nel secondo paragrafo la Havdalà si divide in due parti: la prima è una semplice formula inserita nella ’Amidà dei giorni feriali che si recita il sabato sera, la seconda, da recitarsi su una coppa di vino o, come vedremo, di liquore.

Per comodità si sono distinti qui i due argomenti per permettere al lettore una maggiore comprensione.

La Havdalà nella Tefillà

1) Nella quarta benedizione della ’Amidà del sabato sera (atà chonén) si deve recitare una formula di distinzione tra il sabato e i giorni feriali stampata, di norma, nei siddurìm (libri di preghiere).

2) È vietato compiere qualsiasi lavoro proibito di Shabbàt prima di avere recitato almeno la Havdalà che si trova nella ’Amidà. Le donne che non leggono la preghiera di ’Arvìt ed attendono a casa il marito o i figli per poter fare la havdalà sul calice assieme a loro dicano perciò a voce alta la frase: “Barùkh hamavdìl ben kòdesh lechòl” (Benedetto Colui che distingue tra il sacro ed il profano) prima di accendere le luci o di fare altre opere creative.

3) In molti Batè Hakenèsset vige l’usanza che il chazàn ricordi alla comunità di recitare la Havdalà leggendo l’intera formula o una parte di essa a voce alta nel corso della lettura della ’Amidà. Se ciò dovesse deconcentrare gli oranti è bene annullare tale procedura.

4) Chi dimentica di recitare la formula della separazione nella ’Amidà, non dovrà ripetere nuovamente la sua preghiera poiché, in ogni caso, egli dovrà recitare la Havdalà sulla coppa di vino. Parimenti, chi, nel corso della ’Amidà, si fosse ricordato di non aver recitato la formula prescritta, non dovrà comunque tornare alla quarta benedizione o includere la Havdalà in un’altra berakhà, per il motivo su citato.

Tale norma presenta, però, alcune eccezioni:

a) chi non ha pronunciato la Havdalà nella tefillà di ’Arvìt ed ha assaggiato cibo o bevande prima di aver recitato la Havdalà sulla coppa di vino dovrà ripetere nuovamente la ’Amidà e leggere la formula della separazione come di norma.

b) Chi si fosse dimenticato di pronunciare la Havdalà nella tefillà di ’Arvìt e per qualsiasi motivo si trovasse sprovvisto di vino o liquore e con assoluta certezza non riuscirà ad entrarne in possesso neppure il giorno successivo, dovrà ripetere nuovamente la ’Amidà e recitare la Havdalà.

Ma se in tale caso ci si accorgesse dell’errore nel corso della ’Amidà, si potrà includere la Havdalà nella sedicesima benedizione (shemà’ kolénu), se ciò è ancora possibile, altrimenti si torni alla quarta benedizione e si proceda come di norma.

La Havdalà sul vino

1) È ormai uso comune rimanere seduti mentre si recita la Havdalà sul calice.

2) Dopo aver recitato alcune frasi di buon auspicio per la settimana entrante, stampate di consueto nei libri di preghiere, si procede alla lettura delle quattro benedizioni della Havdalà seguendo tale ordine: a) sul vino; b) sugli odori; c) sul lume; d) sulla distinzione tra il sacro ed il profano.

3) Si afferri la coppa con la mano destra e gli odori con la sinistra e si reciti in questo modo la benedizione sul vino. Si passi poi il bicchiere alla mano sinistra e si tengano gli odori con la destra e prima di annusarli si reciti la relativa benedizione.

Si appoggino dunque gli odori e, sempre tenendo il calice con la mano sinistra, si accosti la mano destra al lume si pronunci la benedizione sulla luce.

Si termini dunque, la cerimonia della Havdalà recitando la quarta benedizione dopo aver nuovamente afferrato la coppa di vino con la mano destra. Il vino dovrà essere bevuto solo dopo la conclusione di quest’ultima berakhà.

4) La coppa del vino non dev’essere rotta o scheggiata. I Maestri contemporanei permettono però di adoperare bicchieri di plastica o di carta.

5) Non si può adoperare del vino avanzato in un bicchiere durante un pasto a meno che, prima di iniziare la Havdalà, non si sia aggiunto a questo del vino nuovo.

In mancanza di vino o di succo d’uva si può adoperare del liquore o un altra bevanda alcolica (ad esempio della birra) ma non succhi di frutta, latte o altri liquidi anche se di gusto piacevole.

6) Il vino della Havdalà non potrà essere sostituito neppure dal pane, perciò, in assoluta mancanza delle sostanze permesse alla regola 4 si faccia affidamento alla Havdalà che si recita nel corso della ’Amidà.

7) Anche le donne sono obbligate, come gli uomini, a recitare la Havdalà. Perciò, nel caso in cui il marito o i figli non si trovassero a casa, ella dovrà ugualmente adempiere al precetto.

8) Chi assiste alla Havdalà nel Bèt Hakenèsset può, se ne ha l’intenzione, uscire d’obbligo dalla mitzvà rispondendo Amèn (ma non Barùkh hù uvarùkh shemò) alle benedizioni del chazàn.

9) Un chazàn che recita la Havdalà per permettere a tutti di adempiere al precetto, dovrà poi ascoltare e rispondere Amèn alle benedizioni recitate dalla propria moglie o dai figli. Ma se nessuno tra loro fosse in grado di adempiere correttamente alla cerimonia si proceda nel modo seguente: a) reciti lui stesso la prima e la quarta benedizione e beva dal calice , b) i figli o la moglie leggano le benedizioni sugli odori e sul fuoco ed egli risponda Amèn.

10) Secondo l’uso comune, beve dal calice solo chi recita la Havdalà e non coloro che la ascoltano. Vi è chi usa versare un po’ di vino sul terreno, vicino alla porta di casa (ma molti Maestri ritengono che sia il caso di annullare tale abitudine), altri invece usano intingere le dita nel vino e bagnare con il liquido gli occhi in segno di prosperità.

Norme sulla benedizione degli odori

1) Dopo la benedizione sul vino si reciti quella sugli odori adoperando preferibilmente del mirto o, in mancanza di questo, delle altre piante aromatiche o della frutta.

2) Come di consueto la benedizione deve precedere l’azione, perciò prima si reciti la formula prescritta e poi si odorino le erbe. Su ramoscelli d’albero si dica: “Borè ’Asé Besamìm” (che crea alberi odorosi), sulle erbe: “Borè ’Isbé Besamìm” (che crea erbe aromatiche) e sulle piante di dubbia provenienza “Borè Minè Besamìm” (che crea le specie di odori). Sulla frutta dovrà invece dire: “Hanotèn réach tov baperòt” (che pone buon aroma nella frutta).

3) Non si può recitare la benedizione in questione a) sui profumi fatti con alcool o con sostanze non completamente naturali; b) sul tabacco; c) sugli spray; d) su scatole che hanno contenuto in passato delle erbe e continuano a mantenere un po’ del loro aroma.

Norme sulla benedizione del fuoco

1) Se possibile si reciti la benedizione sul fuoco di una torcia, ossia su almeno due fiamme unite tra loro ma in mancanza di questa basterà una normale candela o, al limite, dei cerini o un accendino.

Molto si è discusso sulla possibilità di recitare la formula in questione sulla luce emanata da una lampada elettrica. Ai sefarditi, secondo l’opinione di R. ’Ovadià Yosèf (Shelita) ciò è vietato, perciò, in mancanza di fuoco si proceda alla benedizione successiva.

2) Non è necessario togliere gli occhiali al momento della benedizione, è però vietato recitarne la formula su un lume posto dietro a una finestra o una porta a vetri.

3) Si avvicini la mano destra alla fiamma e piegando le dita verso il palmo si osservi la luce del fuoco che riflette sulle unghie.

4) Chi fosse momentaneamente sprovvisto del lume o degli odori potrà ugualmente pronunciare la prima e la quarta benedizione sulla coppa di vino e completare poi la cerimonia nel corso della serata o della notte (ma non si recitino le benedizioni mancanti se è gia sorta l’alba). Chi invece fosse sprovvisto di vino, di succo d’uva o di liquore pronunci ugualmente la benedizione sugli odori e sul fuoco e potrà recitare le benedizioni mancanti sulle bevande permesse anche il giorno successivo (e vi è chi permette fino al martedì).

1) È importante notare che secondo il Talmùd Yerushalmì (Berakhòt 8, 6) alcune delle regole riguardanti la benedizione sulla luce del fuoco durante la Havdalà si ricavano proprio dalla lettura di Genesi 1°, 4, il che ha indotto alcuni Maestri (R. I. Hutner e R. Tzadòk Hakohèn) a ritenere che il vero significato della Havdalà vada ricercato anche nel versetto in questione e non solo nelle fonti midrashiche, come molti sostengono.

2) Questo concetto trova la sua applicazione anche nella normativa ebraica: la halakhà stabilisce infatti che nella prima settimana dopo il matrimonio si debbano recitare in onore degli sposi una serie di benedizioni nuziali (shiv’à berakhòt) alla fine del pasto a condizione che oltre agli sposi siano presenti almeno nove maschi e che nei giorni feriali uno o più commensali non sia stato presente il giorno delle nozze. Ma di Shabbàt quest’ultima condizione non è necessaria poiché in questo giorno ogni ebreo è divenuto idealmente un uomo nuovo. Egli non è più la stessa persona che aveva presenziato allo sposalizio, è come se il volto di tutti i commensali, che per la tradizione ebraica rappresenta la viva espressione dell’anima interiore, si sia modificato grazie alla luce che Dio ha nuovamente riportato nel mondo e nell’uomo da lui creato (Pàchad Itzchàk, Shabbàt cap. 1).

3) Per il rapporto tra i “detti” di Dio e la circoncisione si veda il commento di Rashì a questo versetto:”Io giubilo per i tuoi detti” (Salmi 119, 162)

“I nostri maestri spiegano che il versetto si riferisce alla milà. Quando David si trovava nel bagno e si vide privo di tzitzìt, di tefillìn e della possibilità di studiare Torà disse: ‘Povero me che mi trovo privo di ogni precetto’ ma poi vide la sua circoncisione e gioì. Uscito dal bagno disse: ‘Io giubilo per i tuoi detti’, ossia per il precetto della circoncisione che fu ordinato al principio con il detto del Signore…come è scritto: ‘E disse Dio a Abramo E tu il mio patto osserverai’.”

4) Il Midràsh interpreta “su di te” alla lettera ossia: legato a te.

Conclusione

“Ecco io mando a voi il profeta Elia prima che venga il giorno del Signore, grande e venerando. E ricondurrò il cuore dei padri verso i figli ed il cuore dei figli verso il loro padre” (Malachì 3°, 22-23).

In una casa ebraica tutto ruota attorno allo Shabbàt: i cibi migliori, i canti più gioiosi, la compagnia, l’attenzione dei genitori verso i figli e tutto ciò che colpisce e rallegra i loro cuori si ritrova insieme in queste ventiquattro ore. Ma il momento più toccante della giornata è forse la sua conclusione; quando la famiglia riunita da’ l’addio alla festa celebrando il rito della Havdalà. La luce della torcia che illumina la buia stanza, il vino ed i profumi sarà l’ultima immagine dello Shabbàt che rimarrà nel cuore e negli occhi dei padri e dei figli e li guiderà nel loro rapporta durante la settimana entrante.

Il Magghìd di Dubnow amava raccontare ai suoi allievi questa storia:

Avvenne che un giorno un padre dovette recarsi con il proprio figlio verso una lontana città; ma la strada era lunga e piena d’insidie così l’uomo fece salire il piccolo sulle proprie spalle per salvarlo dai pericoli. Arrivarono così alla città, ma le porte che vi immettevano erano ormai chiuse ed il giorno stava volgendo tristemente al termine.

L’uomo addolorato disse al bimbo: “Sappi che fin qui ti ho potuto aiutare ma adesso non posso fare più nulla, tutto ora dipenderà da te. Sali sulle mura, se puoi entra nella città e apri le sue porte”. Fu così che il padre, grazie al figlio, riuscì ad entrare nella città e trovare il riparo e il riposo tanto sperati.

È profondo il senso di questo racconto: la vita ebraica dei nostri figli è piena di insidie. Il compito di un padre e di una madre è quello di aiutarli nel loro cammino, di fornire loro un costante appoggio e una sicurezza. Ma in definitiva sono le domande innocenti dei bimbi, i loro sorrisi, il loro particolare modo di raccontare e di cantare le parole della Torà che danno un vero senso alla nostra vita ebraica e ci aiutano a vivere la tradizione con gioia e con calore.

I nostri Maestri insegnano che dal giorno in cui fu distrutto il Santuario le porte della Misericordia divina sono state chiuse e la chiave consegnata ai bambini. A loro, con il nostro aiuto, spetta il compito di aprire quelle porte. A loro e a nessun altro.

Carissima Shouly Rachèl

“(Esaù) alzati gli occhi, vide le donne e i figli (di Giacobbe)… Si avvicinarono le ancelle con i loro figli e si prostrarono; poi si avvicinò anche Leà con i suoi figli e si prostrarono; si avvicinò anche Yosèf e Rachèl e si prostrarono” (Genesi 33°, 5-6)

Rachèl, moglie del patriarca Ya’akòv, fu l’ultima ad avvicinarsi ad Esaù e, secondo R. Shimshòn Refaèl Hirsch il verbo prostrarsi, che nel suo caso viene usato al maschile, testimonia che ella non si volle sottomettere ad un essere umano neppure nel momento del pericolo. Rachèl è sempre stata nella nostra tradizione un esempio di dignità e di devozione. È pensando a lei che, secondo un noto Midràsh, Mordekhài trovò la forza di non inchinarsi di fronte ad Hamàn, discendente di Esaù, ed è proprio grazie a ciò che il nostro popolo si meritò “luce, gioia, felicità ed onore” (Estèr 8, 16) e dunque la salvezza.

Cantando questo versetto ogni sabato sera, all’inizio della cerimonia della Havdalà, noi ricordiamo indirettamente anche la figura di Rachèl che viene così assunta dal popolo ebraico come modello di nobiltà, di decoro e di dedizione all’osservanza dei precetti della Torà.

Con questo breve scritto abbiamo voluto augurare a Shouly Rachèl Braun di poter anch’ella divenire in un prossimo futuro un vivo esempio per tutto Israele e che grazie a lei possa il nostro popolo avere sempre “Luce, gioia, felicità e onore”.

Un augurio particolare va inoltre ai genitori Groussy e Moussy che hanno il merito e la felicità di dover adempiere ancora una volta alla mitzvà di educare i propri figli al rispetto e all’amore della Torà, con la certezza che in questo essi troveranno sempre in Elico e Vera, fratelli della piccola Shouly Rachèl, un valido aiuto. Mazàl Tov.

http://www.morasha.it/zehut/rc04_havdala.html

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