Shabbàt

Il giorno che dà senso a tutti gli altri

Rabbinato centrale Milano
SH-Pensiero

Il lume dello Shabbat (Vajakel-Pekudè 5764)

Jonathan Pacifici – www.torah.it

lume dello shabbat

“Non accenderete fuoco in tutte le vostre residenze nel giorno dello Shabbat”. (Esodo XXXV, 3)

“Per quanto il bruciare in se è rovinare per la maggior parte, in ogni modo per via del fatto che è strumento per tutti gli altri lavori o per la maggior parte di essi, è proibito di Shabbat” (Rabbì Ovadià Sforno in loco basandosi su TB Shabbat 106 a)

La nostra doppia Parashà, con la quale completiamo il libro della redenzione, si apre con una stranissima convocazione del popolo da parte di Moshè all’indomani del primo Kippur della storia. Il Kippur nel quale è stato perdonato il peccato del vitello d’oro e nel quale siamo stati comandati di fare un Santuario affinché Iddio risieda in noi. Stranissima perché apre con le parole: “E radunò Moshè tutta la congrega dei figli d’Israele e disse loro: ‘Queste sono le cose che il Signore ha comandato di fare:…’” (Esodo XXXV,1). Segue l’ordine di rispettare lo Shabbat. Tale comandamento era già stato definito dalla Torà fin da prima della rivelazione sinaitica per poi essere ripetuto nel Decalogo ed in altre occasioni. L’Halachà, in effetti, non impara da questo verso il comandamento dello Shabbat. Trattando qui la Torà della costruzione del Santuario, il testo ci ha voluto diffidare dall’effettuare i lavori di costruzione durante lo Shabbat. Il Malbim, lo abbiamo già visto in passato, commenta in loco “Ed è molto strano che dica che il Signore ha comandato di fare, non è forse quest’ordine di non fare un lavoro di Shabbat? Non è ‘fare’ ma solamente ‘non fare.’” Il Malbim si stupisce quindi di come l’astensione dal lavoro di Shabbat venga definita ‘fare’ da Moshè quando sarebbe stato più logico dire ‘non fare’.

Nella derashà del 5760 abbiamo visto come il Talmud sviluppi il nostro verso fonte nella tematica dell’applicazione delle pene capitali.

Quest’anno tenteremo di sviluppare il discorso in tutt’altra direzione sulla scia di una derashà di Rav Modrechai Elon shlita. Parleremo dell’accensione del lume dello Shabbat. Per farlo è necessario innanzi tutto fare un po’ d’ordine sulla suddivisione generale dei precetti dello Shabbat.

Il Rambam (Hilchot Shabbat XXX,1) spiega che siamo stati comandati per lo Shabbat circa quattro categorie fondamentali di precetto: due dalla Torà e due dai Saggi. Nella Torà è scritto “ricorda il giorno dello Shabbat” (Esodo XX, 8-10), ed “osserva il giorno dello Shabbat” (Deuteronomio V,12) mentre dalle parole del Profeta Isaia (LIIX,13), interpretate dai Saggi, impariamo il precetto di onorare lo Shabbat e di renderlo cosa deliziosa.

Zacor, Ricorda: si riferisce alla santificazione (positiva) dello Shabbat attraverso il Kiddush e la Avdalà (Rambam, ivi, XXIX,1). In questo gruppo rientrano anche le due categorie di precetto rabbiniche di :

o Kvod Shabbat, l’onore dello Shabbat: si riferisce ad indossare abiti pregiati e puliti, a lavarsi con acqua calda prima dello Shabbat e di accogliere lo Shabbat come una regina (ivi, XXX).

o Onegh Shabbat, la delizia dello Shabbat: si riferisce a tutto quanto riguarda la tavola dello Shabbat, ai cibi prelibati, all’avere rapporti coniugali di Shabbat (ivi, XXX) e all’accensione del lume sabbatico (ivi, V,1).

• Shamor, Osserva: si riferisce all’astensione dalle trentanove categorie di lavori proibiti di Shabbat. (ivi, I,1)

Il Rambam è notoriamente attentissimo all’ordine con il quale espone le regole. Egli esamina, infatti, le due categorie rabbiniche al trentesimo ed ultimo capitolo dell’Hilchot Shabbat, dopo aver affrontato tutti i divieti e gli obblighi Biblici. Stranamente però il Rambam colloca l’accensione del lume, precetto rabbinico della categoria onegh, delizia, al capitolo V. Cos’ha di particolare l’accensione del lume dello Shabbat tanto da essere segnalata così vistosamente?

Il Talmud (TB Shabbat 25 b) interpreta un verso di Echà (III,17). Il profeta Geremia si lamenta del fatto che a seguito della distruzione del Tempio “Si è allontanata la mia anima dalla pace, ho dimenticato il bene”. Il Talmud intende la lamentela di Geremia in chiave sabbatica: le ristrettezze dell’esilio non gli consentono di adempiere propriamente ai precetti dello Shabbat. In particolare “Si è allontanata la mia anima dalla pace” si riferisce all’impossibilità di accendere il lume dello Shabbat.

Rashì in loco, nella continua ricerca del senso immediato, interpreta la considerazione di Geremia a livello tecnico. “che non aveva di che accendere, e nel luogo nel quale non c’è un lume non c’è pace giacché procede ed inciampa, e procede nelle tenebre”.

La scuola del Rambam però scollega il lume dello Shabbat dalla mera dimensione funzionale. Infatti le Ighot Maimuniot sostengono che il Rambam permette di accendere in casa e mangiare in cortile. Ed aggiungono che Rabbì Simchà di Spira, usava fare proprio così. Dunque c’è una dimensione spirituale che esula dalla funzionalità del lume.

Particolare è inoltre la dimensione femminile dell’accensione del lume. Il Rambam codifica infatti che:

“…e le donne sono comandate su questa cosa più degli uomini perché loro si trovano in casa, e loro si occupano delle faccende della casa. Nonostante ciò l’uomo è tenuto a spronarle e controllarle su di ciò e di dire alle persone della sua casa alla vigilia del Sabato prima che faccia buio, ‘accendete il lume!’…” (ivi, V,3).

Questa volta è il Rambam a portare motivazioni funzionali. Il precetto è della donna perché è lei che si trova in casa e l’uomo diviene partecipe del precetto attraverso lo stranissimo ruolo di “supervisore”.

Nella realtà, ed il Rambam lo sa benissimo, c’è una lettura molto più profonda. La Mishnà, al secondo capitolo del trattato di Shabbat, il Bamè Madlikin, asserisce che tre trasgressioni comportano la morte delle partorienti: il trascurare la Niddà (regole della purità familiare), la Challà (il prelievo della decima farinacea) e l’accensione del lume sabbatico. La Ghemarà (TB Shabbat 31b-32a) spiega il motivo.

“Così come ha spiegato il Commentatore del Galil davanti a Rav Chissà: ‘Ha detto il Santo Benedetto Egli Sia: ‘Un reviit di sangue ho messo in voi, sulle questioni del sangue vi ho messo in guardia; vi ho chiamato ‘primzia’, sulle questioni delle primizie vi ho messo in guardia; l’anima che ho messo in voi è chiamata ‘lume’, sulle questioni del lume vi ho messo in guardia. Se le mantenete, bene, altrimenti vi levo la vostra anima.”

È una Ghemarà straordinaria sulla natura del popolo ebraico. Iddio ha creato l’uomo di carne e sangue, biologicamente un animale. Sangue. Ci ha santificato rendendoci primizia dell’umanità, e ci ha dato la neshamà, quell’anima che è parte del Trono della Gloria Divina. In relazione a questi tre livelli noi veniamo comandati circa tre precetti particolari:

  • Sangue: siamo stati comandati circa il sangue mestruale e le regole della purità familiare. Così come Iddio ci ha dato la vita a livello biologico, Egli si aspetta che noi ci distinguiamo dagli animali santificando il sangue, la parte materiale che è in noi soggiogando il nostro istinto naturale alla Torà.
  • Primizie: Iddio ci ha elevati chiamandoci primizie e dandoci la Torà che è chiamata primizia, ma questo ci richiede l’impegno a trasformare il mondo in un luogo nel quale si innalza la materia verso il Signore attraverso il prelievo delle primizie.
  • Neshamà: Iddio ci ha dotato di un anima superiore illuminando il nostro spirito e trasformandoci nel Suo lume, “il lume del Signore è l’anima dell’uomo”, noi dobbiamo portare nel mondo il concetto di essere lume per il prossimo e per il Signore stesso.

Ma cosa ha a che fare ciò con le donne? Perché proprio le donne sono depositarie di questi tre precetti? Ce lo spiega Rashì in loco.

“vi levo la vostra anima: e si perderà il reviit del vostro sangue, si spegnerà il vostro lume e si annullerà il nome della vostra primizia. E le donne sono comandate su di ciò come quanto hanno detto in Bereshit Rabbà: lei ha fatto perdere la primizia del mondo, giacché per mano sua è stato turbato Adam HaRishon che è stato prelevato come la challà, ed ha spento il lume del mondo, ed ha versato il suo sangue. Ed inoltre le faccende della casa dipendono da lei.”

Dunque è la donna che ha abbassato il mondo nella dimensione materiale ed è lei che deve prendersi carico dei tre passaggi cruciali per risollevare il mondo verso il Signore. Notevole il fatto che così come nell’errore primordiale c’è un fondamentale problema di trasmissione della mizvà da parte dell’uomo alla donna (come più volte abbiamo visto nel commento del Meshech Chochmà), qui anche, se la donna viene chiamata a riparare per l’azione errata, l’uomo viene chiamato a riparare a livello di trasmissione del precetto: “Nonostante ciò l’uomo è tenuto a spronarle e controllarle su di ciò e di dire alle persone della sua casa alla vigilia del Sabato prima che faccia buio, ‘accendete il lume!’” (ivi, V,3).

Cosa centra tutto ciò con la nostra Parashà?

C’è una difficoltà di fondo nella comprensione di come mai la Torà abbia dovuto specificare “Non accenderete fuoco in tutte le vostre residenze nel giorno dello Shabbat”. (Esodo XXXV, 3). Questa proibizione rientra nelle trentanove categorie proibite. Che bisogno c’era di dirlo a parte? Ed ancora, perché la halachà non impara da questo verso il divieto?

Rav Saadià Gaon ha scritto un saggio chiamato “Ner Shabbat”, “Il Lume dello Shabbat”. In questo saggio il Rav affronta una nota polemica con i Caraiti e con coloro che in generale non accettano la Torà Orale. Tra le altre cose il Rav spiega il motivo per cui è riportato il nostro verso.

“…ed il terzo motivo è che nel divieto ‘Non accenderete fuoco’ la Torà ha inteso particolarmente il lume dello Shabbat e così è la cosa: già ha comandato loro di anticipare e preparare il pane e i cucinati per lo Shabbat, come è detto: ‘Quello che dovete cuocere, cuocete etc..’ e non rimaneva altro che il lume, che non era stato spiegato che aveva comandato loro di prepararlo per lo Shabbat, perciò lo ha spiegato qui, come è detto ‘Non accenderete fuoco etc.’, ma quanto dovete accendere, accendete [da prima]. E non ha completato la questione lì, perché lì la sua intenzione era circa la preparazione della manna, e la manna non ha nulla a che vedere con il lume. Ed allora ha lasciato la cosa fino a che l’ha completata qui.”

Rav Saadià Gaon spiega dunque che qui la Torà vuole completare il concetto della preparazione dello Shabbat. Ossia che così come c’è necessità di cucinare prima, così si deve predisporre la luce. Ossia così come è evidente che il divieto di cucinare di Shabbat non implica che si debba digiunare, tutt’altro, allo stesso tempo il fatto che non si debba accendere la luce non implica che si debba stare al buio come invece sostengono i Caraiti. La fonte di Rav Saadià Gaon è molto antica. Infatti il Midrash nella Mechilta già interpreta così il nostro verso.

“‘Non accenderete fuoco etc.: dal momento che ha scritto: “Nell’aratura e nella mietitura cesserai ecc.”, ossia cessa dalla vigilia dell’anno sabbatico per l’anno sabbatico. È possibile che allo stesso modo cessi dalla vigilia dello Shabbat per lo stesso Shabbat e non abbia il diritto di accendersi un lume o di riscaldarsi il Chamin o farsi un fuoco? Il Testo insegna, “Non accenderete fuoco in tutte le vostre residenze nel giorno dello Shabbat”. (Esodo XXXV, 3), nel giorno dello Shabbat non accendi, ma tu accendi dalla vigilia dello Shabbat per lo Shabbat.”

L’halachà prevede che l’astensione agricola dell’anno Sabbatico parta dall’ultimo capomese dell’anno precedente all’anno Sabbatico stesso, dal Rosh Chodesh Elul. L’idea è che quanto piantato durante Elul mette radici in pieno Tishrì e dunque si trasgredirebbe la regola dell’astensione Sabbatica. Onde evitare che si paragonasse la cosa allo Shabbat, la Torà ha specificato che è permesso accendere e preparare tutto quanto serve alla vigilia dello Shabbat. Tutto ciò come detto, va inquadrato nell’ottica della polemica con i Sadducei prima ed i Caraiti dopo, sull’accettazione della Torà Orale. Senza Torà Orale non sapremmo come intendere i versi in questione e passeremmo lo Shabbat al buio come i Caraiti.

Ora, con tutto il rispetto per Rav Saadià Gaon e la polemica anti-caraita, come si fa a trasformare il permesso di accendere, in obbligo di accendere? Possibile mai che il precetto dell’accensione sia solo una dichiarazione politica anti-caraita sulla supremazia della Torà Orale? Non è evidentemente così. Ma, spiega Rav Elon shlita, per capirlo dobbiamo capire il nocciolo della disputa con i Caraiti.

È scritto nei primi brani della Genesi, lo diciamo nel Kiddush, che Iddio ha benedetto lo Shabbat. Come lo ha benedetto? Una lettura interessante della benedizione Sabbatica ce la offre il Midrash riportato in Torà Shelemà:

“E benedisse Iddio: giacchè tu non hai cosa che santifica il Sabato e lo innalza, altro che l’accensione del lume.”

È una bella rivoluzione. Dalla questione tecnica dell’illuminazione di Rashì siamo passati alla filosofia stessa dello Shabbat. Rav Kappach spiega che è per questo motivo che il Rambam ha ‘spostato’ l’accensione del lume al quinto capitolo, giacché seppur tecnicamente facente parte del trentesimo e delle regole rabbiniche esso è in pratica il principio di fondo dello Shabbat. Rabbì Josef Caro, l’autore dello Shulchan Haruch, nel suo Magghid Yesharim dice sul nostro verso fonte: “Qui siamo stati comandati di accendere il lume dello Shabbat”. E continuiamo a tener presente che la logica vorrebbe che il nostro verso al massimo ci dia l’autorizzazione ad accendere, ma da dove hanno tirato fuori il precetto?

Ed ancora il Midrash:

“Grande è la pace, che il Santo Benedetto Egli Sia non ha iniziato a creare nulla nel suo mondo altro che dalla cosa che è pace. E che cos’è? La luce, come è detto: ‘E disse Iddio: sia la luce!’ E da dove impariamo che è pace? Come è detto: ‘Che forma la luce e crea il buio, che fa la pace…’. Da qui hanno detto i Saggi, sia il loro ricordo di benedizione, che tra il lume della casa ed il Kiddush del giorno, è da preferire il lume della casa, e la spiegazione è che la luce è chiamata pace, e per ciò si da la precedenza al lume che è luce e pace rispetto al vino.”

Dunque la profondità della luce del lume Sabbatico e la sua pace, hanno la precedenza persino sul vino del Kiddush laddove per motivi economici si debba scegliere tra i due. Nella scala di valori dello Shabbat non si può prescindere dall’accensione del lume.

Rav Elon shlita fa un po’ d’ordine.

“Poiché il lume è la mizvà e la Torà è la luce.”

Il fuoco è uno dei quattro elementi: vento, acqua, terra e fuoco. Ma il fuoco si distingue dagli altri in due modi. Da una parte è la cosa più distinta dall’uomo: l’uomo non può vivere nel fuoco, ma può vivere negli altri. D’altra parte l’uomo non può creare nessuno dei tre elementi mentre può accendere il fuoco.

Ed in questo strano rapporto va collocata l’accensione del fuoco come opera creatrice dell’uomo. All’uscita del Sabato facciamo la Avdalà a ricordare la scoperta del fuoco da parte di Adam Harishon. L’uomo inizia ad accendere il fuoco quando viene cacciato dall’Eden. Quando viene inserito nella materialità. Il fuoco dell’uscita dello Shabbat rappresenta il dominio dell’uomo sulla tecnologia, sugli elementi. La capacità creatrice umana che è stata sospesa per lo Shabbat.

Per questo il lume è la mizvà e mai la Torà. Il lume è l’essere finito di ciò che è infinito. Ciò che non è domabile viene domato. Un lume non può illuminare tutto, dinanzi al sole è nulla. Ma ci sono delle fessure nelle quali solo il lume umano può far luce. E la sera del 13 di Nissan si controlla il chamez alla luce di questo lume. Solo con il fuoco si può arrivare nelle piccole fessure. La rozza materialità del chamez può confrontarsi solo con la luce materiale del lume.

L’uomo sa che quella luce si spegnerà. È una luce finita. Ma è una luce materiale che fa brillare quella spirituale. Ner Mizvà, Torà Or. La Mizvà è materiale e finita. Ma non la Torà. La mizvà in se è per forza di cose collegata alla materia ed al mondo umano. La Torà sta alle mizvot come la luce sta al lume. La Torà è stata data nel fuoco. La Torà che era fuoco nero su fuoco bianco, viene data al popolo d’Israele.

Quello che era trascendente è ora immanente. Ora si può prendere. Ora è nella materialità delle mizvot. Ma che non si commetta l’errore di pensare di aver preso la luce. Noi abbiamo una rivelazione finita della luce infinita. Abbiamo il fuoco, non la luce. Persino il nostro sole non è luce. È un grande lume. La luce, quella della Creazione è riservata ai giusti nel mondo a venire del quale il Sabato è anticipazione.

Il Sabato è la luce. È scollegato da noi. È Iddio che lo santifica. Senza Israele il Sabato continua ad avere la sua santità. Al contrario il lume che accendiamo è il massimo al quale arriviamo nella nostra materialità. È il massimo della luce della quale siamo capaci. E ci viene chiesto di accenderlo. Per innalzare il Sabato.

È l’incontro tra l’uomo nella sua limitatezza che entra nello Shabbat e lo Shabbat che trasforma il suo fuoco finito in nella luce infinita. Non è questione di tecnica. È il nocciolo della questione dell’esistenza umana nel discorso con i Caraiti , il discorso sulla Torà Orale ed il ruolo dell’uomo nella creazione in generale e nella creazione dello spirito in particolare.

Ha senso il fuoco della mia Torà Orale dinanzi alla luce della Torà scritta? La mia azione di uomo che si prepara allo Shabbat nelle più materiali delle faccende domestiche cosa vale dinanzi alla luce spirituale dello Shabbat? I Caraiti dicono: nulla. Ed allora è meglio stare al buio.

L’idea del lume dello Shabbat, è che queste due luci così diverse si incontrano attraverso la mia mizvà che innalza lo Shabbat e lo benedice. Io uomo ci metto il lume (derabanan) Iddio ci mette lo Shabbat (deoraita) e ne esce il lume dello Shabbat che è la vera benedizione dello Shabbat.

Ossia la benedizione dello Shabbat di cui abbiamo parlato, è proprio nella capacità umana di confrontarsi in maniera assolutamente impari con l’infinito ed accendere un lume alla presenza della Luce, perché se non ha ancora diritto alla Luce superiore, nulla lo esime dal cercare il massimo della luce della quale è capace. Questo è lo Shabbat. Il cercare di portare il mondo a venire in questo mondo. Questa è la definizione stessa di onegh Shabbat, delizia del Sabato, ed è per questo che il lume entra in questa categoria. Onegh è ciò che contiene questo mondo ed il mondo futuro assieme. Onegh è come si trapiantano il sonno, il sesso ed il cibo dello Shabbat, pezzi di mondo futuro, in questo mondo. È il contatto tra l’umano ed il Divino. È davanti al lume di olio che è destinato a spegnersi nello Shabbat Divino, che uomo e D. si incontrano ed accendono assieme il Lume dello Shabbat.

Solo se si capisce che nel dire “Non accenderete fuoco in tutte le vostre residenze nel giorno dello Shabbat” la Torà sta invitando i Saggi a stabilire di testa loro il precetto di accendere il lume dello Shabbat, si può capire come possa Moshè dire che “Queste sono le cose che il Signore ha comandato di fare”, quando in pratica ci sta dicendo cosa non fare.

È uno strano linguaggio alla rovescia che è la chiave per capire che senso ha il nostro Shabbat. Perché non posso mettere sotto lo stesso tetto quel pezzo di eterno che è lo Shabbat con la cena riscaldata del Venerdì sera se non capisco che la delizia dello Shabbat sta proprio nell’appianare tutte quelle contraddizioni che sono specifiche di questo mondo.

Di Shabbat impariamo a guardare oltre ed a intravvedere un’epoca nella quale sapremo veramente vivere spiritualmente la nostra materialità. Nella quale sapremo essere il lume di D. e D. sarà la nostra Luce.

Nelle parole dello Yozer Ashkenazita:

“Una nuova luce su Sion illuminerai e meriteremo tutti noi presto della sua luce, Benedetto sii Tu oh Signore, che crei i luminari”.

Abbiamo completato con queste parashot il libro di Shemot: Chazak! Chizku VeIamez Levavchem kol Hamjachalim l’Hasshem. Shabbat Shalom,

Jonathan Pacifici

http://www.archivio-torah.it/jonathan/2264.pdf

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