Shabbàt

Il giorno che dà senso a tutti gli altri

Rabbinato centrale Milano
SH-Pensiero

Il tè del Sabato

Rav David Gianfranco Di Segni

Full Red Teacup and Saucer Isolated on White

Il quarto Comandamento e il film “Kadosh”

Non credo che Amos Gitai sapesse, quando inserì la scena sulla preparazione del tè durante il sabato nel suo ultimo film Kadosh , che la parola “kadosh” (sacro, santo) è usata per la prima volta nella Torà proprio in relazione al sabato. Alla fine del racconto della creazione è infatti detto: “E D-o benedisse il settimo giorno e lo santificò ” ( Genesi 2: 3).

Il film di Gitai è assai discutibile e zeppo di grossolani errori, inesattezze e incongruenze. Il problema che affronta, ossia il ruolo della donna fra gli ebrei cosiddetti “ultra-ortodossi” (e non solo fra questi e non solo fra gli ebrei), è un problema reale, ma esso va trattato approfonditamente e non banalizzato con una visione parziale ed essenzialmente errata come è nel film. Sarebbe alquanto auspicabile che se ne parli su queste colonne (si veda anche la lettera di Gavriel Levi nel numero scorso di Shalom ).

Qui vorrei trattare dell’osservanza del sabato e della “pignoleria” delle sue norme che tanto infastidiscono, fin dai tempi degli antichi Romani, il mondo non ebraico e coloro, fra gli ebrei, che non hanno scelto la Halachà , la legge ebraica, come modello di comportamento nella vita.

Scrive La Repubblica (16/4): il film di Gitai ci dà “il senso, più che del sacro, dell’assurdo: che dire di quella discussione su come preparare il tè durante il sabbath, con quel complicato gioco di recipienti e le disquisizioni sul crudo e il cotto?”. E Il Sole-24 ore (23/4): il film ci mostra “un universo claustrofobico, inesorabilmente dominato dalla Legge biblica, seguita alla lettera. Estenuanti discussioni su come preparare il tè nel giorno di sabato…”.

Bene ha invece detto Erich Fromm: “Ci troviamo di fronte a esagerazioni eccessive e coercitive di un rituale originariamente ‘sensato’, oppure forse siamo noi che non capiamo fino in fondo il rituale e dovremmo rivederlo?” ( Voi sarete come dèi , cap. 6; Il linguaggio dimenticato , cap. 7, che consiglio vivamente di leggere).

Non è questa la sede opportuna per entrare nel dettaglio delle prescrizioni della Halachà sull’osservanza del sabato. Chi vuole può rivolgersi al proprio rabbino o consultare testi specializzati (p. es., in italiano: Lo Shabbath , di I. Grunfeld, ed. “La Giuntina”, 2000). Vorrei invece solo spiegare brevemente alcuni principi di base.

L’ordine di osservare lo Shabbat ricorre più volte nella Torà e nei Profeti, ed è uno dei Dieci Comandamenti (l’unico a carattere, per così dire, “rituale”): “Ricorda il giorno dello Shabbat per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tua opera, ma il settimo giorno è Shabbat per il Sign-re D-o tuo; non farai alcuna opera né tu né tuo figlio né tua figlia né il tuo servo né la tua serva né il tuo animale né lo straniero che abita nelle tue città. Perché in sei giorni il Sign-re fece il cielo e la terra, il mare e tutto ciò che è in essi e si riposò nel settimo giorno. Perciò il Sign-re ha benedetto lo Shabbat e lo ha santificato” ( Esodo 20: 8-11). Nella ripetizione dei Dieci Comandamenti, in uno degli ultimi discorsi di Mosè al popolo ebraico, l’ordine è riportato in forma simile, ma con alcune significative differenze: “Osserva il giorno dello Shabbat… affinché il tuo servo e la tua serva possano riposare come tu stesso; e ti ricorderai che schiavo fosti in terra d’Egitto e il Sign-re D-o tuo ti trasse di là con mano forte e con braccio disteso. Perciò il Sign-re D-o tuo ha comandato di attuare il giorno di riposo” ( Deuter . 5: 12-15).

Se è sì prescritto in molti passi della Torà di “non fare alcuna opera ( melachà )”, meno chiaro è cosa la Torà intenda con “opera” o “lavoro”. I Chachamim (Saggi) della Mishnà hanno identificato 39 categorie principali di “lavori” proibiti, che essenzialmente coprono tutte le attività “produttive” e “creative” dell’uomo: dai lavori di carattere agricolo (arare, seminare, mietere ecc.) a quelli necessari per la preparazione di vestiti (tessere, cucire, tagliare…), dallo scrivere al costruire una casa o perfezionare un oggetto, al trasportare oggetti in un luogo pubblico. Da un’analisi delle 39 melachot si ricava che il “lavoro” proibito di sabato è “un atto che manifesta il dominio dell’uomo sulla natura (e sul mondo sociale – il divieto di “portare”), eseguito mediante l’uso costruttivo della sua intelligenza e abilità” (Grunfeld, cit. ). In effetti, la distinzione fra “crudo” e “cotto”, intesa come contrapposizione fra Natura e Cultura, non è affatto fuori luogo.

Solo due “lavori” vengono esplicitamente menzionati nella Torà come vietati di Shabbat: l’accensione del fuoco ( Esodo 35: 3) e la preparazione del cibo mediante cottura ( Esodo 16: 4-5, 22-30). Quest’ultimo passo, che tratta della manna, viene prima dei Dieci Comandamenti, e ciò sottolinea fra l’altro l’antichità dell’osservanza di questa norma nel popolo ebraico.

“Cuocere” può essere definito come “sottoporre qualcosa all’azione del fuoco o di un intenso calore, sia direttamente, sia in recipienti asciutti o pieni d’acqua”. Questa definizione non è tratta dallo Shulchan Aruch , bensì dal “Dizionario Garzanti della lingua italiana”: essa è comunque ben vicina alla definizione di cuocere data dalla Halachà stessa.

Secondo quanto esplicitamente affermato dalla Torà, quindi, non possiamo preparare di Shabbat alcun cibo mediante l’uso del fuoco o altra fonte di calore. Questo non significa che di sabato bisogna mangiare cibi freddi: al contrario, è bene conservare al caldo il cibo per lo Shabbat. Le due espressioni presenti nei Dieci Comandamenti, “ricorda” ed “osserva”, non sono alternative ma complementari (i nostri Maestri affermano che furono dette con un’unica voce): lo Shabbat è sì costituito da una serie di proibizioni ( shamor – “osserva”), ma anche da atti positivi ( zachor – “ricorda”), quali il vestirsi eleganti, l’accendere le candele alla vigilia, il fare il kiddush con il vino e, appunto, il mangiare cibi caldi e migliori degli spuntini freddi e frettolosi a cui siamo abituati nel resto della settimana.

Farsi un tè caldo di sabato comporta pertanto un problema: non si può accendere il fuoco per riscaldare l’acqua né si può utilizzare l’acqua tenuta in caldo da prima del sabato, perché immergere le foglioline di tè nell’acqua calda rientra nella definizione halachica (e comune) di cuocere; d’altra parte, però, non prepararlo significa, per chi ha piacere nel berlo, rinunciare a una delle soddisfazioni della giornata di riposo. Come fare quindi? Ecco che interviene il “gioco dei recipienti”. Non è un’assurdità, ma solo l’utilizzo della logica e della comune esperienza. Come sa bene chiunque abbia o abbia avuto bambini piccoli, se si vuole raffreddare una minestra che scotta la si trasferisce in un secondo o un terzo piatto. In questo modo si riesce a dare un cibo caldo al bambino senza che questo si bruci la lingua. Ugualmente, nel caso nostro, i rabbini ci insegnano che se si trasferisce l’acqua bollente dal “primo” recipiente che sta sul fuoco in un secondo o terzo recipiente, e soltanto dopo vi si immerge la bustina di tè, non si rientra più nella definizione corrente di “cuocere”. Il tè forse non risulterà all’altezza degli standard della buona società londinese, ma sarà ancora bevibile e sufficientemente caldo da recare piacere.

Ognuno è libero di accettare o meno la Torà come base del proprio comportamento, ma non si può accusare di assurdità chi decide di seguirne i comandamenti. Sul sabato la Torà ordina esplicitamente di “non accendere il fuoco” e di “non cucinare”: farsi il tè nel modo usuale è quindi impossibile per chi segue i dettami della Torà. I rabbini, che non sempre aggiungono proibizioni, ma spesso limitano quelle della Torà, ci hanno insegnato un modo per farsi il tè di sabato senza trasgredirne i divieti: non è raggirare la legge, ma è piuttosto preservarla e allo stesso tempo adattarla, rendendola una legge di vita e non di oppressione o di soli divieti.

Scrive Abraham J. Heschel: “Il lavoro è un mestiere, ma il riposo perfetto è un’arte, il risultato di un’armonia tra il corpo, la mente e l’immaginazione. Per raggiungere la perfezione in un’arte si deve accettarne la disciplina… Il settimo giorno è un palazzo che noi costruiamo nel tempo . …(Le) restrizioni sono canti per coloro che sanno vivere in un palazzo insieme con una regina” ( Il Sabato: il suo significato per l’uomo moderno, cap. 1). Se costruendo un palazzo si sbaglia anche di poco l’esecuzione di un calcolo sul peso della struttura o sulla resistenza del cemento armato, il palazzo poi può crollare. Ciò che al profano sembra un dettaglio minore, per l’ingegnere è di fondamentale importanza: ugualmente, per chi vuole osservare lo Shabbat e goderlo pienamente, il “gioco dei recipienti” non è solo un dettaglio di poco conto, ma una delle tante regole che fanno sì che l’atmosfera sabbatica sia alquanto diversa dal giorno di “riposo” trascorso in macchina in mezzo al traffico di migliaia di altre macchine che vanno al mare. E Umberto Eco, pur dal di fuori (o forse proprio per questo) ha capito benissimo tutto ciò e lo ha espresso mirabilmente (nel box di seguito).

L’ altro giorno, al mare per il week-end, mi sono spaventato. Mi sono accorto che non stavo facendo niente. Avevo letto alcune pagine di un libro, avevo fatto una nuotata, e mi trovavo sdraiato sul letto senza neppur la voglia di accendere il televisore. Ho avuto un sussulto, da etica protestante e spirito del capitalismo, e mi sono sentito colpevole. Poi mi sono detto che avevo avuto una settimana snervante, e forse mi faceva bene poltrire; ma mi sono subito detto che “poltrire” è una brutta parola, e cercavo disperatamente una giustificazione morale. Mi ero semplicemente dimenticato (da quanti anni?) che il riposo domenicale non è un diritto, bensì un dovere.

Talora ci pare insopportabile il Sabato degli ebrei ortodossi, che debbono accendere il televisore la sera prima e, come accade a Gerusalemme, salgono in quel giorno su ascensori “accelerati”, che si fermano a ogni piano, in modo che non si debba neppure schiacciare il bottone. Eppure tutte le prescrizioni rituali nascono da una saggezza arcaica, e solo la rigidezza del comando garantisce l’osservanza del precetto. E’ come nelle diete: riescono se osservi in modo dogmatico le prescrizioni del medico, non più di ottanta grammi di carne, non più di mezzo bicchiere a pasto. Non è che novanta grammi o tre quarti di bicchiere ci facciano ingrassare in modo sensibile, ma se passi da ottanta a novanta grammi sei finito, niente ti impedirà il giorno dopo di salire di dieci grammi, e via mangiare.

Qual è la saggezza del Sabato ebraico? Che se devi riposarti dopo una settimana di lavoro il riposo deve essere assoluto, devi dimenticare tutto, abbandonare ogni pensiero, non devi più affannarti sui problemi della settimana trascorsa. E se solo ti corre il pensiero che potresti finire quella lettera, o dare una lavata a quella camicia, non ti fermi più, saranno venti lettere e il bucato della settimana.

Nell’universo cattolico il riposo domenicale non è mai stato sentito in modo rigoroso e rigoristico. (…) L’intenso armeggio che precedeva la partenza della famiglia de’ Tappetti per la vacanza, oggi si ripete ogni venerdì sera o sabato mattina: accaldato nella sua canottiera madida, l’aspirante al riposo carica la macchina e dà di frizione in code estenuanti sull’autostrada, se è ricco lavora di sartie e colpi di timone sulla barca, fa il punto, scruta il faro nella notte, si affanna alla radio di bordo per captare il messaggio della capitaneria del porto. E tutti, in mare come in terra, lavorano di posteggio di coda, di manutenzione, cercano disperatamente un meccanico per sostituire le candele, danno di crick per cambiare le gomme, mugolano sulle bronzine fuse, si ustionano le palme dando strappi di corda per far partire il fuori bordo. (…) E d’altra parte, anche chi rifiuta il rito della vacanza e decide di passare la domenica tra quattro mura, dà di pialla per costruirsi la libreria, monta da sé il computer comperato a pezzi sfusi, digita sul Videotel come un impiegato aeroportuale. E poi ci lamentiamo se durante la settimana l’impiegato è neghittoso, il funzionario fuori stanza (…)

da l’Espresso del 28.7.91

Giugno 2000 – Pubblicato su Shalom

http://www.morasha.it/zehut/gd14_te_sabato.html

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