Shabbàt

Il giorno che dà senso a tutti gli altri

Rabbinato centrale Milano
SH-Letteratura

Il venerdì più corto

Tratto da “Shabbath – A cura di Augusto Segre”, Ucei 1972

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Chayim Nachman Bialik

1.

Se nelle comuni vigilie di Sabato merita lode chi è sollecitato, tanto più nel venerdì più corto! Quando il venerdì è corto non è lecito gingillarsi! Basta la minima negligenza perché, Dio guardi, si finisca col profanare il Sabato. Satana accusa proprio nel momento del pericolo.

Non è strano quindi che il Rabbino Sig. Lipa, Dio io mantenga, ebreo debole e pauroso per natura, cominciasse a darsi pensiero fin dalla mattina, dinanzi a quel venerdì così corto. Egli era molto severo verso sé stesso! Aveva un’enorme paura di tardare, non sia mai, perfino un minuto: ciò avrebbe sconvolto tutto l’ordine della sua giornata.

L’ordine della giornata di Rabbi Lipa non deve sembrare una cosa da prendersi alla leggera. Immaginate un pochino: preghiera di mezza notte, vale a dire «Tikkùn Rahél» col «Tikkùn Leà»; i Salmi colle «Maammadoth»; letture e «hors d’oeuvres» prima e dopo l’orazione, l’orazione stessa, capitoli della Mishnà, una lezione di Ghemarà, due o tre paragrafi dello «Sciulhàn Arùch» e finalmente la sezione biblica della settimana ripetuta due volte noi testo ebraico ed una nella versione aramaica: questo «per il Signore»; poi qualche cosa «per voi»; cioè un po’ di ristoro: la colazione! Non c’è rimedio! Siamo fatti di carne! Bisogna mangiare per forza… Dopo mezzogiorno, un altro programma di lavoro: fare il bagno, tagliarsi le unghie, tritare il tabacco ad onor del Sabato, ecc. Aggiungi qualche soluzione rituale e talvolta una «decisione legale». Le seccature, s’intende, capitan proprio alla vigilia di Sabato… E così puoi dir addio alla «giornata». Ti rivolti, che viene «il tramonto».

Non c’è quindi da meravigliarsi, come abbiamo detto, se il Rabbino Sig. Lipa, con un coraggio da leone, si alzasse, in quel brevissimo venerdì, appena spuntata l’alba e, non appena lavatesi le mani, fosse subito sollecito a cominciare il lavoro. Magari ne fosse uscito sano e salvo! Era ansioso di non perdere un secondo, e ogni tanto dava una occhiata a quel vecchio decrepito, grave di membra e d’anni, dell’antico orologio, appeso sulla parete di faccia. Rabbi Lipa tremava dalla paura d’esser costretto (non sia mai) ad omettere qualche cosa del suo compito quotidiano e di non potere quindi, Dio guardi, prendere il Sabato colla mente serena. Ma, come dicevano i Rabbini, tutto dipende dalla fortuna!

E contro la fortuna, dovete convenirne, non valgono né previdenza né solerzia…

Sentite un po’ il terribile fatto.

2.

Dopoché Rabbi Lipa ebbe terminato tutte le «recitazioni » della levata mattutina e cominciava già a disporre la mente alla preghiera, la porta cigolò d’un tratto ed entrò in casa un colpo di vento insieme con un goi.

«Che cos’ha costui che viene così presto alla mia porta? – disse il Rabbino stupito e un po’ impaurito, ritirandosi in sé stesso per l’ondata di freddo che era penetrata in casa.

Il goi depose la frusta vicino alla mezuzà, si levò i guanti, affondò la mano in petto e finalmente ne tirò fuori e consegnò al Rabbino, una lettera tutta ripiegata, sgualcita, sporca da tutte le parti. Il Rabbino finì discorrere la lettera e dimenò le spalle.

Il diavolo ci aveva messo la coda… Il cuore glielo aveva detto! Il ragguardevole signor Ghezi, ricco appaltatore di dogane del villaggio vicino, lo invitava alla circoncisione. «Siccome -così era scritto nel biglietto – siccome lui, il signor Ghezi, fa ammettere oggi il suo primo nipote, primogenito della sua figlia maggiore, nel patto del nostro patriarca Abramo, «così» gli fa l’onore di offrire a lui, al Rabbino (Dio lo conservi), la funzione di «padrino»! Egli, il Rabbino, deve dunque prendersi il disturbo di scendere al villaggio e immediatamente. La slitta che gli ha inviato è là che l’aspetta…».

L’appaltatore sig. Ghezi non è un esperto scrittore, sia detto con ogni rispetto, e chi legga le sue lettere stenta a decifrarle, ma stavolta egli ha voluto far le cose per bene ed ha accluso al suo biglietto tre sufficienti chiose.

Prima chiosa: tre rubli nuovi nuovi, ben involtati, «vivo e parlante» onorario, che passano pari pari da una mano all’altra, da quella del goi a quella del Rabbino.

Seconda chiosa: un sacco pieno di grosse patate accanto alle zampe di un’oca grassa e infarcita. Questa bella coppia è stata calata dalla serva giù dal carro e si trova adesso in cucina.

Terza chiosa, per eccesso di chiarezza: una calda, ampia pelliccia con stivaloni di feltro, che il sig. Ghezi gli ha mandato per mezzo dello stesso , e che son tolte dal guardaroba d’inverno del signor Ghezi in persona, affinché il Rabbino (Dio lo mantenga) si avvolga ben bene, e sia caldo durante il viaggio.

Questi tre chiarissimi commenti illuminarono subito gli occhi del Rabbino, il quale in un attimo abbracciò col suo brillante ingegno tutta la faccenda.

«Mah, che devo far? – sospirò il Rabbino. – Certo è questa la volontà del Santo (benedetto sia). Il patto della circoncisione è un tal dovere!… Però, bisogna consigliarsi colla Rabbinessa».

Rabbi Lipa entrò nella stanza, dalla Rabbinessa; fece là quel che doveva fare, si trattenne quanto si doveva trattenere, – e poi uscì vestito di una bianca camicia e colla cappa sabbatica, pronto al viaggio. Qua, nella prima stanza, avvolse intorno alla cappa la pelliccia che gli avevano mandato, infilò sulle scarpe nere gli stivaloni gialli, calzo sul berrettino il pulito turbante sabbatico, strinse ai lombi la rossa cintura del messo Ivan – e così solenne in quegl’indumenti, in cui si mesceva il sacro al profano, Rabbi Lipa si fermò a baciare la mezuzà e uscì di casa.

La slitta, che aspettava davanti alla casa, era grande e imbottita di molta paglia. Rabbi Lipa vi salì, vi si sedette a suo agio, come sedesse sul suo. Il goi copri le gambe del Rabbino con paglia e minuti ramoscelli; poi montò e sedette anche lui. Un fischio e la carrozza sgusciò sulla neve.

3.

La strada era buona e liscia e la cavalla agile. Pareva proprio che divorasse la via…

Dopo un’ora, non era ancora giorno, che il Rabbino giungeva al villaggio, alla casa dell’eroe della festa.

Gl’invitati vi eran già raccolti. Dopo aver bevuto il tè, si misero a pregare in dieci, secondo la legge. Si era scoperto che un macellaio, giunto per caso al villaggio per acquistar dei vitelli, possedeva una buona voce; e fu lui a far da cantore. Il suo ebraico era, a dire iii vero, alquanto difettoso. Si confuse un po’ fra «masciv ha-rùach» e «tal umatàr» -; ma non fa nulla. Finalmente terminarono la preghiera senza inconvenienti e si iniziò alla buon’ora la cerimonia della circoncisione.

Il bimbo fu portato nei suoi involti, passando da una mano all’altra. Lo zio lo consegnò allo zio del padre; lo zio del padre al figlio del fratello; il figlio del fratello al nonno paterno; il nonno paterno al nonno materno, ecc. ecc., finché cadde fra le braccia del padrino e là gli fecero quello che gli fecero… Dopo l’atto, la storia riprese da capo: sollevarono di nuovo il corpicino roseo, colle mani e i piedi legati, che strillava e si dibatteva, e lo rimandarono per la strada da cui era venuto: dalle braccia del padrino a quelle del padre, dalle mani del padre a quelle del nonno materno, dalle mani del nonno materno a quelle del nonno paterno, e così avanti, finché tornò alla sua sorgente vitale, dietro ai coltrinaggi, dove si quietò un poco.

E così siam giunti alla parte principale della festa: al banchetto.

L’appaltatore sig. Ghezi era un ebreo ospitale, munifico, generoso per natura, anche nei giorni comuni: tanto più allora che Dio gli aveva concesso la fortuna di farlo vivere fino a vedere un nipotino, primogenito della figlia maggiore. Si capisce dunque che il pranzo fosse veramente regale: pesci, di quelli che la Bibbia chiama «i grandi tanninim»; carne: un vitello intero, una dozzina d’oche e tre anitre ingrassate, per non parlare poi degli altri piatti: come gorgozzuli guarniti in grande assortimento, vale a dire ventricoli in umido e petti e lingue e stomachi arrosto e simili generi di manicaretti ripieni. Poi il cetriuolo! il così celebre cetriuolo rugoso.

Lasciamo le vivande assortite e veniamo alle bevande. Il signor Ghezi, è bene che lo sappiate, è un ebreo semplice, senza eccessiva cultura. Quando si dice: acquavite, vuol dire acquavite; cioè alla lettera: non meno del «novantacinque» e della più vecchia. Cioè? Acquavite serbata nella sua cantina, sepolta da anni sotto terra e appositamente – capite – appositamente serbata per il primo nipote, che sarebbe venuto.

Dunque beva, signor Rabbino, ancora un bicchiere solo, questo bicchierino e Ghezi ficca nella mano del Rabbino una bottiglia d’un quarto di log. La prego, beva, signor Rabbino; non abbia paura. Crede che sia acquavite cotesta? Nient’affatto! E’ olio d’oliva! Scorre dolcemente nel bicchiere, silenzioso. E’ vero olio d’oliva! Quant’è vero che mi chiamo Ghezi! Su, prosit, Rabbi, salute!

Ghezi, l’appaltatore, s’ubriacò. La sua faccia pelosa e pingue era diventata di fiamma e brillava come una teiera lustra, e gli occhi affogavano nel grasso… Di quando in quando puntava un dito nel petto e dandosi un colpetto balbettava a sé stesso: «Lo sai, Ghezi? Ormai sei vecchio… Nonno sei! Senti? Hi, hi, hi, sei diventato nonno. E tua moglie cos’è? N-n-nonna!… Dove sei n-n-nonna! Vieni qua, il nonno vuoi bere con te alla salute! Vieni, vieni, non ti vergognare; il Rabbino dirà amen… Non e vero, R-r-rabbi?».

E così dicendo prese per il braccio il Rabbino, lo afferrò per le spalle con tutta la sua forza, lo dimenò come un sacco di patate, poi d’un tratto gli si gettò ai collo e cominciò a baciarlo. Era così contento che rideva e piangeva insieme, per l’onore, hi, hi, hi, per l’onore che Lipa gli aveva fatto a lui, Ghezi, proprio un onore. Se non c’era lui, Rabbino…

«Beh, beh, basta! Alla salute», diceva R. Lipa tentando di calmare il pianto di Ghezi, e intanto cautamente centellinava: «Alla salute! Che c’entra il pianto? Non c’è bisogno di piangere. Non c’è bisogno…».

Il Sig. Ghezi si quietò e, asciugandosi una lacrima colla manica, soggiunse: «Dice bene il Rabbino, quant’è vero che mi chiamo Ghezi! Non c’è bisogno di piangere. Non c’è bisogno.

Ma alla salute e di nuovo alla salute! Proprio alla salute! Cioè, alla salute proprio! Vita e pane… Ohi, ohi, Rabbi» e Ghezi ricominciò a piangere dirottamente: «Ohi, ohi, ohi, pa-ne…».

R. Lipa, che era debole e sensibile per natura, non potendo resistere al dolore dell’ospite, volle esser compiacente e assaggiò un altro sorso e poi un altro…

Intanto il giorno tramontava, il breve giorno di venerdì. R. Lipa, che s’era inebriato un po’ anche lui, si scosse una, due volte, tentò di reggersi sulle gambe traballanti davanti al tavolo: «E-e-e», brontolò tendendo le mani: «E’ la vigilia di Sabato! La giornata è corta…» ma Ghezi non gli badava; Ghezi lo teneva con ambe le mani e non lo lasciava.

Intanto il vetturale Ivan se ne stava pacifico in cucina deliziandosi anche lui del banchetto festivo. Provava un gran piacere al pensiero che al bimbo tenerello facevan la cerimonia religiosa, e per la gioia si regalava un quarto dopo l’altro: uno, uno e uno, uno e due…

E intanto l’orologio suonò le tre. R. Lipa diede un balzo improvviso davanti alla tavola come avesse una gran fretta, ma le gambe non si decidevano. Quando fu in piedi e si fu avvolto nel doppio mantello, nella pelliccia d’orso e in quella di agnello, ed ebbe cinto la rossa cintura e introdotto le gambe nelle due botti, nei pesanti stivaloni, le gambe non gli ubbidirono neppure allora. Invece di staccarsi dal suo posto, R. Lipa si abbatté, con tutto il corpo sovraccarico, sopra un banco e si ritrovò a sedere in mezzo alla stanza. Tentò di rimuovere il suo corpo: e-e-e-, ma invano. Non si muoveva di dov’era.

L’«olio» che gli era entrato nelle ossa, pare avesse fatto il suo effetto. Però R. Lipa non se ne rammaricava affatto. Anzi, era molto lieto e di buon umore, e mentre il suo corpo tentava, coll’aprir le palme e col distendere le dita, di muoversi per forza dal posto dov’era, gli veniva dalla gola su per la bocca un tenue bisbiglio d’uccello che mormorava: «Hi hi hi, sig. Ghezi, le gambe….».

«Hi hi hi», ridevano i convitati con lui, «il Rabbino…».

Alla fine, coll’aiuto di Dio che dona la forza all’uomo stanco e coll’aiuto dei convitati, il corpo sovraccarico si staccò dal suo posto, e le due belle creature, il Rabbino Lipa (Dio lo conservi) e il suo compagno di viaggio, il vetturale Ivan, uscivano insieme, alla buon’ora, dalla casa, sorreggendosi a vicenda, appoggiandosi l’uno alla spalla dell’altro, e salivano sulla slitta sani e salvi.

Il Rabbino si sedeva di nuovo comodamente dentro la carrozza col corpo ravvolto e le gambe coperte. E Ivan sedeva di nuovo a cassetta. Un alto fischio allegro, e la cavalla si metteva in cammino…

E così siamo giunti al nodo della vicenda.

4.

Dal momento in cui la carrozza si mosse e il nostro Maestro si fu ben bene raccolto entro le sue pellicce, sentì d’un tratto che una specie di piacevole calore, d’una straordinaria dolcezza, gli si diffondeva in tutte le membra. Le sue palpebre furono prese dal sonno, e il capo gli cominciò a dondolare. «Hi hi hi, l’olio!», pareva che qualche cosa dentro gli sorridesse. Senti sugli occhi una specie di granelli di sabbia – «Puro olio d’oliva!…» e nello istante in cui la carrozza passava il piccolo ponte fuori del villaggio, un potente sonno colse il Rabbino… che si addormentò.

Ivan se ne stava ancora seduto, in quel momento, a cassetta e si intratteneva un p0′ colla cavalla; era un amichevole discorso, molte belle promesse per l’avvenire, purché camminasse senza allontanarsi dalla via dritta. Mentre le parlava così, la frusta e le redini gli sfuggirono di mano, la testa col berretto di pelo si piegò verso il petto della blusa e dopo un istante egli russava come un porco.

La cavalla, quando si sentì libera, dimenticò immediatamente le esortazioni del padrone e tutte le sue dolci promesse d’avvenire, e giunta dove la strada si biforcava si fermò e aspettò un istante. come domandasse a sé stessa: di qua o di là? – Poi tirò la carrozza con tutta la forza e, quasi in via di compromesso, non si diresse n’è di qua né di là, ma proprio nel bel mezzo, dal lato della campagna.

Intanto il giorno si annuvolò e la cavalla fu colta lungo la strada dall’oscurità. Cominciò a scendere abbondante la neve, una neve grossa e umida, che confuse i contorni delle cose e cancellò le strade. Pare che la cavalla cominciasse a dubitare di non aver agito come si deve, e già stava riflettendo alla penitenza, ma poiché non vedeva coi suoi occhi, occhi di bestia, alcun rimedio, si abbandonò nelle mani di Dio e continuò a camminare nelle tenebre, coll’umor triste e le orecchie abbassate, a passi lenti, quasi cogli occhi chiusi, sui mucchi di neve e i cespugli di pruni, trascinandosi dietro la carrozza e quel che c’era dentro… Chi sa dove sarebbe arrivata, se non le fosse capitato d’un tratto fra i piedi un inciampo che fece rivoltare la carrozza. I nostri due viaggiatori si svegliarono con grande spavento in mezzo ad un monte di neve, mentre tutt’intorno era il buio, la tenebra.

«Ahi mai!» gridò il Rabbino, dibattendosi per uscir dalla neve. D’un tratto si ricordò di quanto era accaduto e la testa gli rimbombò come per il colpo d’una pesante accetta:

«Come, Sabato!».

Volle gettare un grido acuto, doloroso, ma non poté. Tutto il suo essere si ripiegò, si contrasse nell’idea terribile di questa sola parola:

«Sabato!».

Quando riacquistò un po’ la facoltà della parola, un ruggito gli uscì da sé dalla gola:

«Ivan, ahi, vahi!».

In quel ruggito, che irrompeva dalle profondità del suo cuore e che era espresso nelle tre uniche parole che il nostro Rabbino conoscesse dalla lingua volgare, erano contenuti insieme: il grido di amarezza, la domanda di pietà, la paura di Dio, la coscienza della giusta pena, il pentimento e la protesta, e tante altre cose che non si possono dire…

Ivan era in piedi e bestemmiando e imprecando si affacendava intorno alla carrozza rovesciata e alle briglie intrigate. Ogni tanto sferrava un calcio nel ventre della povera cavalla rinfacciandole le colpe degli avi fino alla millesima generazione. Finito che ebbe le riparazioni, invitò il «Rabbin» a salire. Il Rabbino alzò gli occhi alla notte: da dove gli sarebbe venuto il soccorso? – Non c’era soccorso. Per un momento gli venne l’idea di non muoversi di là, qualunque cosa avvenisse. Avrebbe dormito sul campo e avrebbe fatto là il Sabato. A costo di morire,

non avrebbe trasgredito. Son numerose le «storie» di uomini pii colti dal sabato nei boschi e nei deserti!… Prova ne sia il fatto di «Ariel». Non si racconta che il Santo (benedetto sia) incaricò un leone di custodire quel pio uomo nel deserto lino all’uscir del Sabato e di fargli da cavalcatura finito Sabato?… Ma quando R. Lipa tornò a guardar nell’oscurità della notte, si perdette d’animo. A sinistra scorgeva una specie di bosco, un bosco folto e buio, pien di forti rumori e di gemiti di tempesta: e noi sappiamo per antica esperienza che i boschi son per sé stessi pericolosi: ci son briganti e bestie feroci… A destra una vasta landa desolata, vestita tutta d’un candido lenzuolo funebre. Di mezzo alla neve spuntavano una quantità di esseri informi, cose massicce in cui si confondeva il color bianco e il nero e parevano lapidi di un cimitero. Dio sa che cosa fossero: demoni, bestie, morti o semplici cespugli di rovi… Da ogni lato, da ogni angolo, di mezzo all’oscurità, gli venivano addosso schiere di pantere e di serpenti…

«No!» disse R. Lipa ricredendosi. «Per salvare una vita si può trasgredire anche il Sabato. I precetti di Dio devono essere causa di vita, non di morte; e non si può far affidamento sui miracoli. E poi chi sa se io merito che si facciano miracoli per me».

E R. Lipa vedeva veramente una grossa, spaventosissima pantera drizzarglisi contro spruzzando faville dagli occhi e digrignando verso di lui i denti obliqui… Per la paura, la carne di R. Lipa ebbe un fremito e gli occhi gli uscirono dall’orbite…

«No e poi no!» decise il Rabbino preso da paura mortale, e battendo i denti fu d’un balzo dentro la carrozza. «In verità vera, secondo la norma più rigida, io non sono tenuto a mettere in pericolo la mia vita per questo».

Si ritrovò così seduto proprio in mezzo alla carrozza, ma però tentava ancora, sospirando e gemendo, di ritirarsi in un angolo, al contrario del solito, per cambiare… La carrozza andava senza direzione, or da una parte or dall’altra della strada, al buio, e R. Lipa «accoglieva il Sabato» sotto voce, cl cuore spezzato, affranto…

O viaggiatori, non vi accada mai nulla di simile! La notte invernale pareva durasse un secolo. La povera cavalla già stanca camminava senza forza. La carrozza sobbalzava sui sassi della strada, o sballottando il corpo affranto di R. Lipa. Poco mancava che le sue ossa si spargessero lungo la via. I secolari alberi della foresta, dagli ampi rami carichi di neve, gli passavan davanti con un rimprovero tacito, con forte sdegno, e le selve di abeti, questi bambini della foresta, ammiccavano colle loro cime acute sotto i loro berretti bianchi e dicevano stupiti, attoniti: E’ proprio lui, R. Lipa, rabbino della città, Maestro del luogo che ha osato viaggiar di Sabato… Gli spini, i rovi affondarono la faccia nella terra dalla vergogna, e il vento fra i gelsi gemeva in suono di pianto: Guai, guai, alla profanazione di Dio; guai, guai, guai all’offesa della Torah!

Verso la mezzanotte la carrozza giunse finalmente ed un albergo che si alzava solitario lungo la strada ed aveva le finestre sommerse sotto la neve. La cavalla, stanca fino a morire, mandava vapore e brina sottile, e i viaggiatori erano affranti, colle membra rotte. La barba, i riccioli, i baffi, il bavero della pelliccia del Rabbino erano diventati un pezzo di vetro. Non c’era più modo di andare avanti. Un vecchio cameriere venne loro incontro. Il Rabbino scese all’albergo e la carrozza fu messa al riparo sotto la porta del cortile.

Nella stanza in cui fu fatto entrare il Rabbino regnavano freddo e desolazione e la luce smorta di una lucernina fumante. Dalla stanza vicina si sentivan russare i padroni che dormivano. Sulla tavola c’erano due candelieri di ottone colle candele ormai consumate, e sulla tovaglia di rozzo lino tessuto a mano, erano sparse briciole ed ossa, resti della cena sabbatica. R. Lipa voltò la faccia per non guardare, e irrigidito com’era dal freddo e carico dei pesanti vestiti si gettò, coll’ultimo fil di fiato, sopra un banco nudo e duro vicino alla parete affondando il capo dentro la pelliccia.

«Si. Lui, il Rabbino aveva profanato il Sabato… Che enorme profanazione di Dio! Come avrebbe avuto il coraggio domani di alzar la faccia? E che cosa avrebbe risposto nel giorno del giudizio? Oh, vergogna, vergogna!».

Il Rabbino dette in un dirotto pianto. I suoi riccioli, la sua barba i suoi baffi intiepiditisi cominciarono pure a versar acqua. Aveva la testa e le membra pesanti come sbarre di piombo.

Tentò di muoversi, ma non poté. «Che sia giunta l’ora della morte?’»-pensò preso da una paura mortale, battendo i denti. «Si, è la morte! E’ ora di confessarsi…».

E le labbra del Rabbino cominciarono, da sé a mormorare il vidùi. «Ohi, ohi, Dio misericorde, pietoso, longanime, benefico… Deh, Dio, abbi pietà! Signore del mondo, perdona, fa grazia; son fatto di carne, son verme… I piedi dell’uomo!… E’ vero, ho peccato, ho trasgredito, son colpevole… Ma le mie pecorelle, mia moglie e i miei figli, che colpa ne hanno?».

Per quante ore rimase l’infelice senza poter prender sonno? Tutto il corpo gli grondava di sudore ghiaccio, e le ossa gli ardevano come il fuoco. La febbre lo faceva delirare: recitava sotto voce strani versi. Confondeva passi delle Mishnajoth con versi del Pentateuco, sentenze dei Rabbini con brani delle preghiere; una specie di «Tikkun Sciavuoth»… Pensieri dell’al di là intorno al premio e alle pene: l’Inferno e il Paradiso, le battiture della tomba, l’Angelo della morte si dibattevano nel suo cervello sconvolto in una confusione disordinata insieme colle cose familiari: la vedova, gli orfani, la figlia nubile, l’austerità del Rabbino, l’imposta sul vino…

Sotto il tormento di questi cattivi pensieri, il povero Rabbino andò gemendo e lamentandosi fino al sorgere dell’alba. Quando spuntò l’alba lo colse un sonno duro, inquieto, un sonno tormentoso, pieno ‘d’incubi, ch’era preceduto da un breve pesante respiro… Così si addormentò.

6.

Mentre il Rabbino sig. Lipa giaceva sopra un banco nell’albergo desolato, ripiegato dentro le sue pellicce, tutto immerso nel sudore e nel lago d’acqua prodotto dal disgelo della barba e dei riccioli, in preda a brutti sogni, il Santo (benedetto sia) su nel Cielo faceva quello che fa ad ogni svegliarsi del giorno: faceva cantàre all’alba i galli e ripiegava l’oscurità dinanzi alla luce. Appena il gallo cantò e, attraverso i piccoli balconi coperti di brina, penetrò dentro la stanza la luce pallida triste ‘refrigerante dell’alba d’un giorno d’inverno, Faivke, il padrone dell’albergo, starnutò e si destò dal sonno. In un salto scese dal letto, si mise i pesanti stivali, si gettò sulle spalle il corto mantello e si diresse verso la stanza più grande, per vedere chi fosse colui che era giunto nella notte al suo albergo: ma appena entrato e gettata una occhiata, rimase di stucco: davanti a lui sul banco si trovava disteso quant’eran lunghe le sue pellicce… Il Rabbino! R. Lipa!

Da principio pensò che non fosse altro che un abbaglio oppure opera diabolica. Si chinò e tornò a guardare; osservò ben bene, guardò di sopra, di sotto, dalle parti: «Per la vostra vita, è il Rabbino! E’ lui, è lui! E ii suo naso a corno, è la sua faccia da fico secco…».

Faivke era fuori di sé: «Che cosa accade? – e il Rabbino… Sono ubriaco o impazzito?…». D’un tratto si dette un pugno in testa: Oh Faivke, Cam figlio di Cam! Ma qua c’è uno sbaglio… Hai sbagliato nel contare i giorni della settimana, Faivke! Si, si, Faivke, sei caduto nel laccio, pover’a te… Vivendo fra i gentili, hai purtroppo per te scambiato l’ordine del tempo. Ah, ah, bell’affare, bel casetto. quanto è vero che sono ebreo… Domani tutta la città lo saprà… Peuh!

Ormai, resosi conto della cosa, si dette in gran fretta a toglier dalla casa le tracce del Sabato, prima che il Rabbino si svegliasse e lo cogliesse in fallo. Prima di tutto, tolse dalla tavola ‘e lampade di ottone, i resti della cena e la bianca tovaglia. Poi corse in camera e fece saltar da letto la moglie e la figlia:

«Presto, svelte, sgualdrine! Ehi, ehi, vi pigliasse la peste».

«Che c’è, chi c’è?» – gridò la moglie svegliandosi tutta spaventata.

«Va all’inferno, bestiona, non gridare! Alzati subito e togli il thè dal camino…».

Per un momento la ‘donna non capì quello che diceva il marito. Quando questi, dandole un bel pugno, le spiegò a fondo la cosa, ella saltò dal letto, si vestì e corse al camino.

«Tutto leva tutto, ti venga la peste», gridava il marito;

«la minestra, la torta. Gettali nel cesso. Non ce ne deve rimanere nemmeno un bricciolo…».

In un attimo l’aspetto della casa cambiò, divenne un altro.

Uscì il Sabato e al suo posto entrò la settimana. Nel grande camino dall’ampia cappa fu acceso il fuoco. Il bricco panciuto fu empito di brace ardente e cominciò a ronzare. Si udì in casa il rumore dell’ascia e del martello: il servo Juhim stava spaccando la legna e batteva chiodi e fissava ganci a dritto e a rovescio. Faivke in persone stava curvo sulla madia e impastava la farina con tutta la sua forza. La figlia nubile, una donzella alta, dalla faccia gonfia e nera come il carbone, che se ne stava tutta sporca in mezzo alla stanza e non capiva nulla di quello che accadeva, si prese intanto, dalla mano del padre imbrattata di pasta, due ceffoni e un pizzicotto e si alzò per sbucciar le patate dentro una gran pentola piena d’acqua. «Sbuccia, sbuccia, vi pigli la peste!», gridava Faivke a mo’ d’esortazione, mentre si affannava a impastare con tutta la forza… Ogni tanto dava un’occhiata per vedere se il Rabbino si svegliasse e quando ebbe finito d’impastare e il Rabbino non si destò, si decise a calcarsi in testa il berretto consunto e sgualcito, dai cui buchi uscivano delle sfilacciature d’ovatta, denudò il braccio e cominciò a mettersi i tefillin e a recitare a voce alta e col motivo della settimana le benedizioni della mattina.

Intanto la porta girava senza posa sui cardini e i contadini avvolti nei loro mantelli, colla frusta in mano, cominciavano a andar su e giù. La stanza si empi di neve, di fiati, di fumo d’odor di mantelli insieme allo scalpiccio dei piedi e al borbottar delle voci…

Faivke passava a bolla posta, pregando, proprio davanti al banco dove giaceva l’eccellentissimo Rabbino, cantava a voce alta e col motivo della settimana «Allelujah, allelujah». E passando gettava sul Rabbino dormente un’occhiata scrutatrice di traverso, come dicesse: «Dormi, dormi, Rabbi, e che il sonno ti sia dolce. Ora non ho più paura di te. Ora puoi anche alzarti…».

Il Rabbino in quell’istante moveva davvero impercettibilmente il corpo stanco». «Su, da bravo, Faivke!», diceva l’oste a sé stesso. «Vedi, non far malanni!».

Così dicendo scomparve fra il fumo e la calca dei mantelli, spiando di là, con occhio vigile, il Rabbino e cantando col motivo della settimana e con voce piena di sfida: «Allelujah, allelujah!».

7.

Quando il nostro Rabbino si destò, si destarono con lui tutti i suoi dolori: «Ach, ach, ach, che patimento la testa; oh le mie ossa rotte». Sollevò con gran difficoltà metà del corpo e aprì gli occhi. Che era? Dov’era? In bagno? No, in un albergo. Dov’era il Sabato? Nessun segno di Sabato! Contadini. La folla dei giorni di settimana. Il bricco che bolliva là, in faccia a lui!

«Dunque – un pensiero spaventoso fece tremare tutte le ossa del Rabbino e la sua faccia gialla diventò ancora più gialla. – Dunque, ho dormito tutta la giornata di Sabato e la notte dopo Sabato. Qua sulla panca, davanti a Faivke, davanti ai cristiani, sono rimasto qui disteso, dormente, per ventiquattr’ore intere. Senza kiddùsh, senza preghiera, senza havdalah. Che fai mai con Lipa, o Signore del mondo?».

Una oscura paura colse il Rabbino, una gran disperazione afferrò il suo cuore. Mancò poco non svenisse Dio lo faceva soffrire enormemente, oltre misura… «E perché?» – gridava il suo cuore dentro di lui – «dimmelo, Signore del mondo, perché?».

Fra mezzo alla nube di fumo apparve colla frusta Ivan:

«E’ ora di partire, Rabbin; la carrozza è pronta».

Il Rabbino si alzò gemendo dal suo posto, volgendosi verso la porta. Traballava come ubriaco e a stento si aprì la strada fra i contadini. Sulla porta la palma larga e callosa di Faivke gli afferrò la mano:

«Arrivederci, R-rabbi ».

«Addio, addio», disse il Rabbino, come volesse sfuggirlo e usci in fretta. «Non ho tempo».

«Addio, addio», seguitò a dirgli Faivke. «Stia bene, R-rabbi, e Dio le faccia fare un buon viaggio».

Il distacco in quel momento era gradito ad ambedue le parti e nessuno lo impedì. Faivke corse a chiuder la porta con gran forza alle spalle del fuggitivo, quasi volesse dire: «Dio ti benedica!…». E il Rabbino d’un salto salì con abnegazione dentro la carrozza.

«Ehi, Ivan, Ivan!», disse il Rabbino per incitare il vetturale.

«Che fretta c’è? Si deve fuggire? Ma per dove? – A queste domande neppure il Rabbino avrebbe saputo che cosa rispondere; però in quel momento R. Lipa non domandò nulla, non si curò di approfondir troppo. Tutto quanto faceva, pareva che si facesse da sé, senza volontà, senza calcolo… Una cosa ii suo spirito chiedeva, per una cosa sola egli pregava con tutto il cuore: «Signore del mondo, fa un miracolo per me, e che la strada si dilunghi per miglia e miglia di chilometri; che passino gli anni, trascorrano i secoli, e io cammini, cammini, cammini…

E’ se non ne son degno, richiamami a te, Padrone del mondo; io ti condono tutto, riprenditi l’anima mia…».

Ma la preghiera di R. Lipa non fu esaudita: la carrozza lo trasportò come su ali di aquile e la strada levigata, liscia saltò dinanzi a lui. Dopo la notte nuvolosa spuntò il sole d’inverno e la terra bianca s’illuminò, s’allietò. I corvi che beccavan sulla strada fecero largo alla volante carrozza accogliendola colle loro rauche grida: cre cre.

R, Lipa si vergognava dei corvi, della luce del sole, del candor della neve; nascose il capo dentro la pelliccia e si immerse di nuovo in pensieri disperati. Da quel momento in poi non vide, non udì, non sentì più nulla. Affidò il suo spirito alle mani del Dio degli spiriti e il suo corpo affranto alla carrozza che volava:

«Sia quel che ha da essere… ».

8.

A mezzogiorno, quando la «Comunità» del borgo usciva dalla Sinagoga, e se ne andava con sabbatica maestà, tranquillamente, lungo i lati e nel mezzo della strada, e tutti si davano e si restituivano l’un l’altro l’augurio del Sabato, proprio in quel momento dal porticato sbucò incontro a loro una veloce leggiera carrozza, e dentro la carrozza ‑ guai agli occhi che videro il Rabbino R. Lipa.

(Traduzione dall’Ebraico di Dante Lattes)

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