Shabbàt

Il giorno che dà senso a tutti gli altri

Rabbinato centrale Milano
SH-Pensiero

Jacov e lo Shabbat (Vaishlach 5771)

Jonathan Pacifici – www.torah.it

faraone

“E giunse Jacov integro alla città di Shechem che è nella Terra di Kenaan nel suo venire da Padan Aram e si accampò dinanzi alla Città. Ed acquistò la parte del campo nella quale aveva piantato lì la sua tenda dalla mano dei figli di Chamor, padre di Shechem per cento monete. E piantò lì un altare e chiamo: ‘Iddio è D-o di Israele!’.” (Genesi XXXIV, 18)

Nella derashà su Vaishlach del 5761 abbiamo ricordato come secondo il Midrash, Jacov giunga a Shechem di venerdì, giusto in tempo per fissare il tchum, il limite invalicabile che definisce il luogo nel quale si è scelto di trascorrere lo Shabbat. Questo insegnamento parte dalla interpretazione della parola accamparsi, vajchan, che contiene le lettere della radice “nun” “chet” che indica il riposo dello Shabbat, ma anche la grazia del popolo ebraico.

“e si accampò dinanzi alla Città…:…ma nelle parole dei nostri Maestri, sia il loro ricordo di benedizione: ‘Giunse col calar del sole e stabilì i limiti quando era ancora giorno, da qui si impara che Jacov nostro padre osservava lo Shabbat prima ancora che fosse stato dato.’” (Radak in loco citando Bereshit Rabbà 79,6)

Lo Sfat Emet propone una serie di ragionamenti su questo insegnamento. Proseguendo idealmente a ritroso la traiettoria indicata dal Midrash, egli afferma che la diaspora di Charan come prototipo di tutte le diaspore è paragonabile al modo in cui si serve il Signore nei sei giorni della Creazione. Erez Israel è invece paragonabile allo Shabbat. Dunque Jacov nostro padre giunge integro nel momento in cui passa alla modalità Shabbat-Erez Israel. Nel pensiero del Rabbi di Gur, egli sceglie di arrivare a Shechem all’ultimo momento possibile prima di Shabbat. Questo perché fintanto che il suo servizio Divino era nella modalità Diaspora-giorni feriali egli vuole sfruttare fino in fondo ogni momento. Jacov è dunque conscio che ogni cosa ha il suo tempo e che il compito dell’ebreo è quello di dare il meglio di se in ciascuna situazione. Il fatto che sta per entrare lo Shabbat nel quale si servirà il Signore in una modalità superiore non ci esime da dare il meglio di noi stessi di venerdì. Allo stesso tempo, il fatto di vivere nella diaspora, in una modalità inferiore rispetto a quella di Erez Israel, non ci esime dal dare il meglio di noi nei termini che la nostra condizione ci permette.

In quest’ottica Jacov cercherebbe fino alla fine di redimere in qualche modo Esav, proprio alla vigilia dello Shabbat. Così legge lo Sfat Emet il ripetere da parte di Jacov dell’espressione ‘per trovare grazia ai tuoi occhi’ indirizzata ad Esav. Chen, che come abbiamo detto viene associata alla parola vajchan. È evidente che lo Sfat Emet non sta facendo una ricostruzione storica: passa molto tempo tra un evento e l’altro. Dal punto di vista spirituale però Jacov cerca di avvicinare Esav in ultimo disperato tentativo nella modalità vigilia di Shabbat. Jacov sa che Esav non può servire Iddio come lui. Spera però che il suo modello possa trovare grazia agli occhi di Esav. Che Esav apprezzi Jacov e ne capisca la grandezza. Basterebbe che Esav riconoscesse questo e si “annullasse” al modello Jacov per trovare anche per lui un ruolo al servizio del Signore. Questo contatto è possibile fintanto che si è nella modalità diaspora-feriale. Di Shabbat, il Rabbi di Gur non perde mai occasione per ricordarlo, non c’è contatto possibile, spiritualmente parlando, per i gentili. Shabbat è una realtà fuori da questo mondo, inarrivabile per chi non è parte della Casa di Jacov.

Shabbat è allora lo spartiacque tra Israele ed il resto del mondo. Tra l’accampamento di Jacov nel quale c’è lo Shabbat ed il fuori dove c’è violenza e stupro. Le tre dimensioni di cui più volte abbiamo parlato nelle scorse settimane, trovano qui un ulteriore sovrapposizione. Jacov che racchiude tutte le anime di Israele incontra la santità della terra d’Israele e quindi dello spazio, nell’entrare nella santità del tempo, lo Shabbat.

Per lo Sfat Emet questo è lo spunto per spiegare un altro fenomeno: la possibilità per il finito di contenere l’infinito. Nel trattato di Avot veniamo invitati a “correre come la gazzella” (Zvi). La gazzella è il simbolo della Terra d’Israele che è chiamata Eretz HaZvi. La caratteristica della gazzella è per i Saggi quella di avere la pelle ‘che non contiene la carne’. Ossia la pelle è sempre in estrema tensione, quasi che gli fosse stata data una pelle di misura sproporzionatamente piccola rispetto alla carne che contiene. Questo fenomeno diventa il prototipo del rapporto tra materia e spirito. Anche nell’uomo è stata messa l’anima che fa estrema fatica a rimanere compressa nella materialità della carne. L’anima tende a tornare verso il Cielo e solo la materialità del corpo la comprime e trattiene in questo mondo.

Lo Zaddik è colui che piano piano riesce a far salire il corpo assieme all’anima trasformando la zavorra materiale in un trampolino di crescita spirituale. Correre come una gazzella è allora una chiave nuova di approccio al sacro. Sfruttare l’handicap per crescere. Innalzare la materia. Questo discorso ha una sua dimensione particolare nello Shabbat. Nel momento in cui ci spogliamo della materialità e anzi siamo capaci di trasformare ogni cosa concreta come cibo, abiti e sesso nella delizia del servizio Divino, allora possiamo addirittura ricevere un anima aggiuntiva. Quasi fossimo riusciti a fare ulteriore spazio al sacro in un luogo nel quale a mala pena entrava ciò che c’era. Ciò che può compiere questo miracolo è per lo Sfat Emet la tshukà, il desiderio, quasi passionale, del contatto con il Divino.

Ricorderemo che nella parashà della scorsa settimana la contrazione della Terra d’Israele avviene proprio attraverso la tshukà di Jacov per le sue pietre.

È dunque necessario che il Sacro sia recintato. Lo Shabbat necessita shmirà, osservanza ma anche guardia. Il tchum dello Shabbat è il confine ideale e materiale che recinta la sacralità infinita dello Shabbat – esattamente come la luce della Creazione è riposta e salvaguardata per i giusti nel mondo a venire.

I Saggi ci insegnano che Iddio disse a Moshè: ‘Ho nel mio tesoro un dono prezioso, lo Shabbat, ed intendo darlo ai figli d’Israele: vai ed annuciaglielo.’ Lo Sfat Emet obietta che lo Shabbat era stato già dato in qualche forma! Da qui che per il Rabbi di Gur il regalo speciale dello Shabbat è nell’ultima parte della frase: lech veodiam, vai ed annuciaglielo. Lo Shabbat deve essere riannunciato ogni settimana. Ogni Shabbat è diverso, ogni preparazione allo Shabbat è unica ed irripetibile. Il grande regalo dello Shabbat è allora proprio nella sua dinamicità. La preparazione allo Shabbat, il modo in cui ognuno di noi si appresta ad accogliere lo Shabbat, preludio di un modo superiore, è il dono stesso dello Shabbat.

Capiamo allora che tutto verte sulla nostra preparazione. Shabbat è una realtà astronomica e spirituale. Esiste anche senza Israele. Il nostro Shabbat è il modo in cui ci prepariamo ad osservarlo. Ed il lavoro che fa in questo senso Jacov è colossale. Tutto il percorso sfiaccante che fa il nostro Patriarca nell’incontrare Esav viene letto in questa chiave dallo Sfat Emet.

Quando Jacov dice katonti, sono divenuto piccolo per tutto il bene che Iddio mi ha fatto, intende dire sia che non merita quanto ha ricevuto ma anche che più riceve dal Signore più si rende conto di quanto l’anima gli sta stretta rispetto alla materialità. Il giusto è colui che non si monta la testa, colui che sa capire che tutto viene dal Signore. Il Rabbi di Gur rovescia tutto e dice che il fatto che katonti è proprio mikol hachasadim per via di tutto il bene. Ovvero Jacov reagisce al bene divino diventando più umile. Per questo, spiega lo Sfat Emet, Iddio impiega più tempo a retribuire il giusto. Perché in un atto di bontà Egli vuole che il giusto sia pronto per reagire al meglio al bene ricevuto. Se il bene fosse poi motivo per deviare e scendere di grado, che bene sarebbe? Solo quando il giusto è pronto a fare del bene materiale un trampolino per il sacro può ricevere il bene Divino.

Ma poi tutto il percorso materiale di Jacov è lo specchio del percoso spirituale. Nella strategia del confronto con Esav i Saggi evincono dal Testo che Jacov è pronto ad applicare tre tattiche: corruzione- dono, preghiera e guerra. Prima prova a risolvere la situazione con dei doni, prega il Signore e si prepara a combattere. È certamente un approccio saggio che poi è risultato estremamente utile. Ma c’è un livello superiore. Lo Sfat Emet paragona queste tre tattiche ai tre modi in cui c’è richiesto di servire il Signore: con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze-averi. La preghiera è il servizio del cuore. L’anima è la persona, è colei che combatte in guerra. I beni materiali sono per i doni.

C’è dunque un percorso spirituale che accompagna l’angosciante ritorno di Jacov in Erez Israel.

Il Chidushè HaRim, il nonno dello Sfat Emet, vede nella parola SheCheM le iniziali di Baruch Shem Chevod. Questo indica per lo Sfat Emet l’ingresso della Volontà Divina nella natura, nella materia. Jacov entra a Shechem, nel più materiale dei posti e porta con se l’Unicità del nome di D.. Questo verso, lo abbiamo detto più volte, indica sopratutto la reazione umana al cospetto del Signore. È il modo in cui si risponde alle benedizioni nel Santuario ed è la reazione del pubblico che ascolta il Nome di D. pronunciato dal Sommo Sacerdote. È l’esternazione di un sentimento di rispetto e devozione che non può restare represso dinanzi alla rivelazione del sacro.

Prima becol levavechà etc., poi Baruch Shem Chevod. Sembra quasi uno Shemà alla rovescia. In effetti il primo verso dello Shemà, secondo il Midrash, Jacov lo pronuncia in punto di morte.

Più si va avanti, più si corre, più si deve essere capaci di lavorare in introspezione.

È paradossale, ma non meno affascinante. Noi siamo chiamati a rivelare l’unicità di D. dicendo lo Shemà dal suo primo verso, la summa del Malkut, per poi entrare nei dettagli. Dobbiamo essere spinti dalla radice sacra che è l’anima pura che è stata messa in ognuno di noi per poi entrare nel mondo delle mizvot. Ma dobbiamo essere capaci anche di fare il percorso inverso. Di partire dal particolare, dalla singola mizvà per poi giungere ad una migliore comprensione dell’Unicità di D. nella consapevolezza che fino al nostro ultimo momento in questo mondo saremo ancora in marcia in un percorso senza fine.

È questo il percorso nel quale un Jacov claudicante diventa integro. È il percorso che ci porta dal buio dell’esilio a quel sole che sorge per lui in Erez Israel.

Jacov entra in Erez Israel e traccia il limite dello Shabbat. Jacov conquista lo spazio nel momento in cui santifica il tempo. Ma capisce il tempo sacro quando ne delimita i confini geografici nello spazio. L’epicentro di questa sovrapposizione sacra è quel punto del tempo e dello spazio nel quale Jacov si siede ed apparecchia una tavola attorno alla quale spiegare alle Tribù d’Israele in cosa differisce questa sera dalle altre sere, questa Terra dalle altre terre.

Shabbat Shalom, Jonathan Pacifici

http://www.archivio-torah.it/jonathan/0871.pdf

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