Shabbàt

Il giorno che dà senso a tutti gli altri

Rabbinato centrale Milano
SH-Letteratura

La dimora del “Povero Dio”

Tratto da “Shabbath – A cura di Augusto Segre”, Ucei 1972

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Shalom Ash

Nel cortile sorge un piccolo edificio, costruito con assicelle vecchie e nuove. Colà abita il «povero Dio» degli inquilini del caseggiato. La sua dimora è tanto povera quanto la loro; e non è più pulita di quella dei suoi credenti. L’armadio che contiene la Bibbia è chiuso da una misera tenda. Su alcuni tavolini stanno sparsi esemplari del Talmud. E come nel resto del caseggiato strepitano i telai e le macchine da cucire, così qui echeggia la monotona cantilena di poveri Ebrei preganti il loro povero Dio.

Mirkin, quando si trovava nel cortile e contemplava la miseria che lo circondava, entrava spesso nell’oratorio, a trovare il Dio povero, che esercitava su lui un’inesplicabile attrazione. Non era sicuro di far bene occupandosi dell’oratorio e del suo Dio, ma se ne occupava. Egli, un radicale, che credeva nel progresso, doveva ammettere che queste cose lo interessavano, che un impulso ignoto lo spingeva verso il Dio povero.

Provava curiosità di apprendere ciò che succedeva là dentro, chi fossero i giovani che vi passavano le giornate a studiare. Spesso entrava di sera, sedeva in un angolo e stava in ascolto. Osservava i poveri popolani entrare vestiti in abiti da strada, provenienti difilato dalle loro botteghe, coi segni del loro mestiere ancora visibili. I pescivendoli avevano ancora appicciate le mani con le scaglie dei pesci offerti sul mercato; i macellai si cingevano ancora la persona con la corda con la quale trascinavano le loro bestie. I conciatori e i ciabattini erano ancora neri ‘del loro lavoro. Tutti venivano dalle loro fatiche, senza preparativi, come se Dio fosse loro pari, per il quale non occorressero cerimonie. Egli, il loro Dio, capiva subito ciò che si voleva da ‘lui, ed essi gli spiegavano in fretta la loro situazione: uno dei preganti si avvolgeva in un sudicio mantello rituale, recitava con voce rauca l’orazione prescritta; gli altri gli tenevano dietro a fatica. Così pregavano, sputavano, davano a Dio ciò che è di Dio, e uscivano. Restavano solo pochi oziosi che non avevano meglio da fare, o forestieri di passaggio; e mormoravano capitoli dei salmi alla fioca luce dei ceri. Qua e là un vecchio sonnecchiava, la barba sulla Bibbia aperta…

In un angolo, quella sera, sedeva davanti ad un cero un Ebreo dalla barba bianca. La sua alta fronte splendeva sotto il cappello; egli dondolava la persona leggendo un libro. In un altro angolo, Mosè Pokzywa appoggiava la faccia alla fredda parte dell’oratorio e mormorava: «Padre celeste, aiutami!».

Presso la porta se ne stava seduto un ometto di sembiante femminile: dal panno in cui teneva avvolta la testa guardavano due azzurri occhi infantili. Costui portava una barbetta a punta. Teneva in mano una candela e con questa illuminava il libro dei salmi che stava leggendo: era vecchio, voleva morire, e si preparava il suo posto nell’Ai di là col <(pane asciutto del nutrimento celeste », onde non arrivare lassù a mani vuote…

Mirkin, all’osservare quella scena, fu colto da una strana sensazione: da un’indicibile pietà non solo degli uomini ma anche del Dio che abitava colà. Quel Dio ebreo pareva un povero Ebreo come i suoi fedeli. Aveva lasciata in cielo la sua gloria ed era sceso fra questi uomini per abitare con essi in quel sudicio soffocante cortile. Qui, fra tessitori, calzolai, sarti, macellai e pescivendoli, aveva posta la sua dimora. E costoro, davanti all’armadio contenente la sua Bibbia, avevano tesa cortina misera e logora, come i loro abiti.

Accendevano per Lui una misera candela, la luce delle loro dimore. Venivano in fretta, negli abiti da lavoro, recitavano una preghiera e se ne andavano. Ed Egli li capiva. Sapeva che non potevano dedicargli molto tempo, perché avevano da mantenere moglie e figli… E li confortava nei loro dolori, e infondeva loro coraggio nelle avversità…

Ma un giorno alla settimana Mirkin vedeva il Dio povero in Sua gloria: il Venerdì sera. Ogni vita si spegneva nel caseggiato. I telai tacevano, il ronzio delle macchine da cucire si interrompeva. Il cortile era spazzato, e dalle abitazioni vi affluivano bambini, ragazzine con la testa lavata, fanciulli dal viso, eccezionalmente, pulito.

E il cortile mutava aspetto. Dalle finestre proveniva, in luogo del solito odore di macchine, il profumo di pesci fritti. Venuta la notte, trapelavano dalle finestre fiammelle di candele confitte nei lucidi candelieri di ottone. Anche sul balconcino di legno il Sabato faceva la sua comparsa. Dalla finestra giungeva il lume delle candele, e il pallido volto di Gitele si mostrava sul balcone. Essa aveva, come le bambine, i capelli pettinati con cura, teneva in mano un libro, e si figurava d’essere una principessa in attesa del figlio d’un re…

A poco a poco, il piccolo oratorio si riempiva di barbuti Ebrei, freschi del bagno sabbatico. Dai pastrani aperti brillavano le camicie lavate e stirate da poco.

Tutti i doppieri dell’oratorio erano accesi… Davanti all’Armadio della Bibbia, era tesa una cortina nuova.

Mirkin se ne stava in un angolo. Stupito, quasi spaventato, osservava il cambiamento. Un misterioso splendore illuminava tutte le cose, le sollevava dalla quotidiana povertà in un mondo fantastico. Tutto era nello stesso tempo, reale e irreale: gli Ebrei nei pastrani nuovi e il povero Dio lassù, avvolto in un mantello di velluto nuovo.

Mirkin provava l’impressione che il «Dio povero» avesse alquanto aperto il suo misero abito, e che dalla fessura trasparisse e splendesse l’abito regale ch’Egli porta sotto la veste del mendicante.

(Da «Solennità e Ricorrenze» Ed. L’Eco dell’Educazione ebraica Numero speciale – Milano 1963)

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