Shabbàt

Il giorno che dà senso a tutti gli altri

Rabbinato centrale Milano
SH-Letteratura

Il sabato guastato

Tratto da “Shabbath – A cura di Augusto Segre”, Ucei 1972

carrozza

Martin Buber

Come ogni settimana, anche allora, all’uscir del sabato, il Baalscem recavasi in carozza fuori di città, ed erano con lui i tre ‘dei suoi discepoli, chiamati i tre David, cioè Rabbi David di Micalajow, Rabbi David Firkes e Rabbi David Leiches, ed il servitore Alexa che guidava i cavalli. E per lo più era il maestro che determinava la direzione e la velocità del viaggio, senza dir parola ma con la sua volontà, ed il servitore Alexa avrebbe potuto benissimo voltare le spalle ai cavalli che essi avrebbero portato la carrozza nel tempo voluto alla mèta desiderata.

Ma questa volta il Baalscem sentiva che la sua volontà era impotente di fronte alla forte andatura degli animali, e si accorgeva che essi conducevano la carrozza verso una mèta ignota e senza curarsi del comando del cocchiere spaventato. Egli tentò allora di tornare indietro e lo disse, anche ad alta voce, afferrando egli stesso le redini, ma non aveva alcun potere sui cavalli, i quali continuavano a correre contro il freno della sua mano, a gran trotto, verso il luogo in cui li trascinava l’invisibile spinta. Giunsero così in un deserto e vi tirarono la carrozza finché non vi fu tutto intorno né sentiero né vista ed essi erravano ora nella ‘landa solitaria con passo lento ed uniforme. Il viaggiò duro così per tre giorni, ed il Baalscem lo sopportava come una fatalità contro cui non v’è anima d’uomo che possa ardire di muover lamento; i discepoli invece se ne stavano storditi ed abbattuti ed il servitore Alexa di dimenava come un forsennato, quasi non avesse mai, fino a quel giorno, provato col suo padrone eventi singolari e paurosi.

Ma dopo quei tre giorni un nuovo estro prese i cavalli, i quali si misero a correre dal deserto verso una foresta vicina tirando la carrozza nel folto più profondo. Quivi essi si fermarono e nitrirono soddisfatti, come se fossero rientrati alla stalla ed avessero dinanzi il più saporito foraggio. Coloro però che erano nella carrozza non riuscivano più a ‘distinguere fra il giorno e la notte. Si alimentarono parcamente delle poche provviste che avevano portato seco, ma non riuscivano a prendere sonno, tanto forte era ‘l’ansia che aveva colto i loro cuori. Così passarono le ore una dopo l’altra. Ma venne un’ora in cui dalla tristezza sette volte maggiore che aveva invaso il suo animo, il Baalscem capì che era giunta la vigilia del sabato ed egli non sapeva in che modo potessero, egli e i suoi discepoli, accogliere ed onorare la sublime giornata. La tristezza penetrò allora dal suo animo nel suo intimo intelletto; ed egli ebbe l’impressione come d’un’acqua che gonfiatasi traboccasse sopra tutta la sua sapienza e la sommergesse.

Egli stavasene così in profonda pena e, guardando davanti a sé, sentiva passare su tutte le membra una stanchezza disperata, finché cadde in un sonno pesante ed ottuso. Allora la speranza penetrò nell’anima dei discepoli, poiché essi conoscevano la santità che alitava ognora intorno al sonno del loro maestro e sapevano che quanto durante la veglia parevagli fosco e confuso, si chiariva nel sogno, e come si elevava da tutta quella tristezza, in una meravigliosa rivelazione, l’immagine pura della verità; poiché la bocca delle cose ricercava l’orecchio del maestro allorché egli giaceva coi sensi esteriori chiusi ed il suo spirito aprivasi alla parola interiore.

Ma il Baalscem si svegliò in modo ottuso ed inquieto, e la rigidezza, ch’era su di lui, era cresciuta quasi fino alla paralisi. Era il momento in cui la disperazione s’insinua, strisciando fuori dall’acqua e dal terreno o dalle nuvole e adocchia l’uomo. Essa stendeva già la sua lingua; già il suo rosso sguardo ricercava colui che era stato il signore dei misteri e che ora stavasene abbandonato fin dall’ultimo sapere; allora egli si drizzò, levò le braccia, e col dito tremante indicò lontano. Ecco, laggiù lontano c’era un lume, un piccolo lume vacillante dietro uno sterpame denso.

Lasciarono essi la carrozza e si trascinarono a fatica verso il lume e, a poco a poco, si illuminava per loro il volto della terra, ed il sole eterno stava sulle loro teste, ed essi dissero: «Benedetto sia ii Signore e benedetto sia il suo Nome». Nella luce essi videro in lontananza una piccola casa, come una opaca macchia grigia in mezzo al verde della foresta. Arrivarono alla casa. Dinanzi alla porta c’era un uomo gigantesco, dal collo taurino, vestito al modo di quelli uomini leggieri che disprezzano le buone costumanze dei padri, dagli ispidi capelli d’un giallo rossastro, dai piedi rozzi e nudi; le frange della legge non si scorgevano sul suo vestito. Egli mise i pugni sui fianchi, guardò beffardamente coloro che si avvicinavano, e tacque. S’inchinarono essi dinanzi a lui e chiesero: «E’ permesso celebrare il sacro sabato in casa vostra?»

Costui gridò con voce stridula: «Non vi voglio e non tollero che passiate la mia soglia. Non vi conosco forse? Le vostre facce dicono chi siete. Siete chassidim, portate al mercato la vostra devozione, e predicate per le strade. Andatevene; la mia cervice è ‘di bronzo contro le vostre inutili parole. Vi odio, vi odio tutti da ieri e da avant’ieri e da sempre. Vi hanno odiato mio padre e mio nonno, e siete odiosi a tutta la mia casa. Via dunque subito di qua, poiché non voglio più vedere le vostre facce». Ma essi sopportarono le sue parole in silenzio, solo domandarono: «Allora vogliate dirci se vi sono nelle vicinanze altre case a cui potremmo rivolgerci per celebrare il sacro Sabato». L’uomo rise ‘forte ed esclamò con un riso più irritato: «Quanto tempo avete adoperato per venire qui, altrettanto ed ancor più ce ne vuole finché arriviate in un altro luogo abitato da uomini». Quando egli ebbe detto ciò, ridendo tanto e così a lungo come non potesse più smettere, quel po’ di nuovo coraggio che si era ridestato in loro stava per scomparire un’altra volta.

Ma Rabbi David Firkes, il più giovane dei David, che ‘di solito non diceva mai una parola ma soleva starsene taciturno e pensieroso fra la schiera dei discepoli, uscì fuori dolce e pacifico a dire a quell’uomo: «Può darsi che qualche cosa nel tuo animo parli contro di noi, ma è proprio vero che tu intendi ricacciarci nel deserto? Ecco, il Sabato è cosa sacra tua e nostra, e se noi camminiamo, dobbiamo in qualche luogo ed in qualche ora incontrare anche i tuoi passi. Vuoi tu guastare il sabato dell’avvenire? Ecco, il Signore è Dio tuo e nostro, e se tu dominerai la tua rabbia rimanendo zitto e invitando al silenzio la tua anima, tu ti accorgerai che Egli ti guarda in questo momento dal cuore del mondo».

L’uomo stavasene zitto e guardava or l’uno or l’altro senza far motto. Ma Rabbi David di Micolajow, il più anziano dei David, che si credeva espertissimo nei moti dell’anima umana e nelle vie della segreta intenzione degli uomini, disse: «Bada anche, che non vogliamo regali. Siamo noi piuttosto che vogliamo pagarti quanto tu neppur ti sogneresti di chiedere, sia pure dieci volte più di quello che è in uso dappertutto». Ma l’uomo guardò con sorriso sprezzante al di sopra di lui, e voltosi al più giovane disse in tono turbero ed arcigno: «E sia. Non crediate però di portare nella mia casa il vostro sabato. Qui vige il mio costume e la mia legge soltanto. Per cui badate a quello che vi ordino. Prima di tutto so che voi adoperate molto tempo nel prepararvi alla preghiera, né badate quanto il giorno sia avanzato, ma aspettate che la grazia scenda su di voi. Qui però non serve sedere e contemplare; io faccio le preghiere che vanno fatte, e quindi vado a mangiare, poiché ho bisogno di molto cibo e devo soddisfare la mia fame spesso e presto. Conosco, in secondo luogo, il vostro modo di pregare; so che gridate e smaniate, e l’uno vuole parlare a Dio a voce più alta dell’altro. Ma qui non c’è posto per il rumore dei vostri rapimenti, e non permetterò che disturbiate me, e la mia gente. In terzo luogo, vi piace di censurare il cibo e come veri forsennati ragionare a lungo se l’una o l’altra cosa sia pura per voi chassidim; questo non vi passi neppur per la mente, qui».

Questo discorso con cui si disprezzavano e snaturavano i sacri costumi, e la proibizione fatta di osservarli, fu per il Baalscem e per i suoi un grave colpo, ma essi non avevano dinanzi altra via che quella, sì che acconsentirono e promisero di sottomettersi a tutto. Allora costui li fece entrare. Entrarono in una stanza angusta e nuda. Dopo che essi si furono distesi un poco sul pavimento e si furono liberati dalla gravissima stanchezza, il Baalscem chiese se non si trovasse nelle vicinanze un ruscello o un qualche serbatoio d’acqua dove potessero prendere un bagno in onore del sabato. Quegli fu preso di nuovo dall’ira e gridò: «M’ero bene immaginato subito che siete una miserabile teppa! Voi volete solo spiare dove io tengo i miei averi. In verità che io prendo le vostre cianfrusaglie e le butto fuori insieme con voi! » Essi dovettero supplicare a lungo e chiedere scusa finché egli si mostrò di nuovo disposto a tenerli in casa sua.

Il Baalscem ed i suoi se ne stavano ora seduti là, guardando l’uomo che entrava ed usciva dalla stanza, e facendo di lui grandi meraviglie poiché non avevano ancora veduto un uomo talmente grossolano e rozzo e sudicio come quello. Nella stanza pure il pavimento e le pareti erano sudici, e non c’erano né una tavola né un banco, ma nel pavimento erano confitti quattro pali, su cui poggiava un’asse rustica. Capirono subito che quella stanza era l’unico luogo di dimora poiché se pur v’erano nella casa altre stanze, esse erano tutte chiuse, e le porte erano grigie per la polvere e ricoperte di ragnatele, come se non fossero state mai aperte. Non si vedeva in tutta la casa altro essere vivente, sia stato gatto o uccello. La sera si avvicinava, ed essi non vedevano ancora né posate né cibi in onore del sabato. L’uomo gigantesco passeggiava ozioso su e giù per la stanza; di tanto in tanto tagliava una fetta da un cocomero colossale che era in un angolo, e se la ficcava in bocca. Poi riprendeva a passeggiare canterellando a mo’ dei contadini.

I compagni cominciarono a temere ch’egli potesse non osservare il sabato, negandogli la santità che tutti gli ebrei del mondo osservano con sacro zelo. Mia egli prese un pezzo di lino rozzo e crudo, e lo distese sulla sua misera tavola. Vi mise un piccolo pugno di argilla, vi fece un buco col dito e dentro pose una miserabile candela di cera. Cominciò allora a recitare le parole dolci e sublimi con cui, da tempi antichissimi, di settimana in settimana, in tutti i paesi della terra, il sabato vien ricevuto come la sposa della nostra anima e lo fece con tale vacua fretta come fanno gli stupidi che inghiottiscono le sillabe e strozzano il senso della parola. In un attimo egli ebbe terminato la preghiera, e gli ospiti dovettero far altrettanto, legati come erano dalla loro promessa. Per quanto fosse per loro penoso il carattere e la sua volontà, essi non potevano nutrire odio contro di lui nella santità di quella sera, ed esclamarono rivolti a lui: «Buon Sabato!» Ma egli per tutta risposta gettò in faccia a loro questo augurio: «Vi colga un malo anno!» E quando essi stavano per intonare il canto: «La pace sia con voi!» costui si scagliò contro di loro e li fece tacere. S’accinse poi a recitare la benedizione sul vino. Avendolo pregato di dar loro un po’ di vino perché potessero fare essi pure la benedizione, egli rifiutò esclamando: «Se tutti voi voleste benedire, la luce sarebbe presto spenta. Lasciate che lo faccia io per voi».

E preso il bicchiere tra le sue dita, mormorò tra sé le parole. Poi spalancò la bocca e vi versò il vino, sicché poche gocce soltanto rimasero in fondo al bicchiere, che porse loro dicendo: «Ecco a voi, ma non trincate troppo che non v’abbiate ad ubriacare». Poi posò sulla tavola un pane duro ed ammuffito, di farina nera e di segale, e ne ruppe un pezzo per uno. E avendo urto dei discepoli preso la pagnotta per tagliarsene una seconda fettina, il padrone lo respinse dicendo agli ospiti: «Non osate toccare il mio pane colle vostre mani schifose». Indi porse loro una scodella con una broda di lenticchie e pose dinanzi ad ognuno un grosso cucchiaio, invitandoli a servirsi e a mangiare, poiché piatti e simili finezze lì non c’erano. Egli poi, chinatosi sulla scodella, ne attinse un cucchiaio pieno di broda che trangugiò con sì avida fretta che il liquido gli si riversò dagli angoli della bocca nella scodella, e gli ospiti non ebbero più il coraggio di stendere la mano al cibo. Dopo cena, essi volevano cantare gl’inni sabbatici, ma anche questo egli proibì; borbottò presto presto e trascurando ogni costumanza la preghiera del pasto e quindi si alzò per preparare agli ospiti un indegno giaciglio sul pavimento.

Ai primi albori del mattino, destatisi, udirono che il loro albergatore andava su e giù canterellando con un’aria di ballo campestre l’inno della mattina il quale comincia con le parole: « L’anima d’ogni creatura ». Così s’iniziava la loro giornata, la quale si fece ancor più amara e penosa allorché fu giunta la sera. Tutte le forze della intera visione avevano abbandonato il Baalscem, la sacra sapienza era scomparsa ed egli stavasene così seduto congiungendo le mani, senza riuscire a pensare che questo: «Che mai è ciò? e a quale scopo Dio mi ha mandato una simile cosa?» Finalmente scese la notte, ed il sonno, mite e buono, lo colse. Quando egli si alzò al mattino, sentì che in lui germogliava una nuova forza e pregò con vigore, poiché egli non partiva mai da un luogo senza aver parlato con Dio. Quindi ordinò al servitore Alexa di attaccare alla carrozza i cavalli che erano stati condotti nella stalla. Ma il servitore ritornò subito, annunziando che la porta di casa era chiusa. Il maestro si recò allora dal padrone e lo pregò di aprire la porta, e disse: «Accetta i nostri ringraziamenti per tutte le gentilezze che tu ci hai dimostrato, ed abbila bontà di indicarci la strada per cui possiamo tornarcene il più rapidamente possibile nella nostra patria». Ma quegli rispose: «Nient’affatto; voi rimarrete ancora miei ospiti». E senza lasciarsi commuovere li tenne come prigionieri in casa fino al quarto giorno.

Al mattino del quarto giorno, recatosi da loro, disse: «Oggi aprirò la porta». E così dicendo, li guardò in un modo strano, e se ne andò. Essi furon colti da paura, poiché non capivano la sua condotta e s’insinuò nella loro mente il dubbio ch’egli volesse ucciderli.

Mentre pensavano a queste cose paurose, s’aprì la porta di una delle camere chiuse, e ne uscì una bella donna, nobilmente vestita, la quale s’inchinò dinanzi al maestro e disse: «Rabbi, io vi prego di voler celebrare il santo sabato presso di me, insieme coi vostri discepoli». Il Baalscem le rispose: «Tu mi chiami Rabbi. Come hai potuto allora permettere che il sabato sia stato in tal modo guastato?» La donna domandò: «Rabbi, non mi riconoscete?» Egli disse: «No, non ti riconosco».

Ed ella: «Quando io ero quasi ancora bambina, ho servito nella vostra casa. Ero orfana e non mi restava più nessuno al mondo. Ma le mie mani erano maldestre, sicché io facevo cadere in terra e rompevo molti degli oggetti preziosi che portavo. Vostra moglie perciò mi ammoniva spesso. Un giorno si stava preparandola tavola sabbatica, e vostra moglie voleva portare i piatti. Io volli mostrare di esser diventata più abile, e la pregai di affidare alle mie mani il piatto sabbatico. L’avevo appena avuto in mano, che le mie dita cominciarono a tremare ed io lo lasciai cadere a terra. Vostra moglie s’irritò contro di me e mi dette un leggero colpo sulla faccia. Voi sedevate poco lontano e lasciaste, tacendo, che ciò accadesse. Allora una voce gridò forte nei cieli, e il giudizio fu pronunziato sopra di voi, per cui voi dovevate perdere, in pena del vostro silenzio, ciò che vi era destinato nel mondo a venire. Ma a me toccò’ poi la grazia di esser presa in moglie da questo uomo che è uno zaddik nascosto e che cela la sua santità sotto le sue maniere.

Fu egli che mi svelò quanto era stato decretato contro di voi. Cominciammo allora a pregare Iddio perché la sentenza fosse cambiata: la nostra preghiera è stata esaudita, e la pena è diventata sempre più mite finché è stato deciso che vi dovesse esser guastato un sabato poiché il sabato è la fonte del mondo futuro. E noi fummo incaricati di farvi tale cosa. Ci fu detto che la nostra azione avrebbe annullato il decreto soltanto se l’avessimo compiuta in tutto e per tutto. Così che l’abbiamo fatto con una gran pena in cuore. Ed ora la vostra parte è nelle regioni più eccelse del paradiso».

In quel momento la sapienza ritornò nel maestro, l’interna vista rinacque in lui, ed egli, guardando nelle profondità del destino, vide la sua salute e vide l’uomo santo e nascosto nella sua verità dinanzi a sé. Così essi si recarono insieme nelle stanze e insieme rimasero quello e ii giorno seguente, celebrando il sabato in sublime letizia.

(da «La leggenda del Baalscem»)

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