Shabbàt

Il giorno che dà senso a tutti gli altri

Rabbinato centrale Milano
SH-Pensiero

La consacrazione del tempo e dello spazio (Beshallach 5765)

Jonathan Pacifici – www.torah.it

Tabernacle

Questa derashà è dedicata a mia moglie Solenne Rivkà, infermiera, che stravolge il giorno con la notte, lo Shabbat con il Yom Chol, nella grande mizvà del pikuach nefesh, che precede ogni altra mizvà della Torà.

 “Guardate che il Signore ha dato a voi lo Shabbat e perciò Egli vi dà al sesto giorno cibo per due giorni; risiedete ognuno al suo posto e non esca nessuno dal proprio posto nel settimo giorno.” (Esodo XVI, 29)

“Non esca nessuno dal proprio posto: non deve uscire dal proprio posto per ricercare il proprio sostentamento, perché ecco che da ieri l’ho preparato per lui.” (Chizkuni in loco)

I grandi miracoli dell’apertura del Mare, che compaiono all’inizio della nostra Parashà, ci distolgono spesso da una lettura attenta del resto di essa. Ci occuperemo questa settimana del primo incontro ‘halachico’, quello con lo Shabbat. Sebbene lo Shabbat venga menzionato nella Creazione, e venga poi codificato con la promulgazione del Decalogo e la ricezione della Torà tutta, esso viene in qualche modo anticipato con la discesa della manna. In effetti le prime disposizioni relative allo Shabbat compaiono proprio nella nostra Parashà relativamente al divieto di uscire a raccogliere la manna di Shabbat, manna che comunque non scende nel settimo giorno.

Secondo i Saggi però il divieto di uscire non si riferisce solo ai ‘mangiatori di manna’ ma ha delle ripercussioni sulle nostre regole dello Shabbat, essendo la fonte delle regole del Tchum Shabbat, il limite geografico oltre il quale è proibito spingersi di Shabbat.

I nostri Saggi discutono nel trattato di Shabbat (69a) se questo divieto sia di origine Biblica (Deoraità) secondo il punto di vista di Rabbì Akivà o sia piuttosto una disposizione rabbinica secondo l’opinione dei Saggi. In entrambi i casi la ‘fonte’, o il ‘riferimento’, è proprio il nostro verso.

Secondo il Sefer HaChinuch, la nostra Parashà contiene una sola mizvà, il divieto di uscire dallo Tchum Shabbat.

Il Sefer HaChinuch (Mizvà 24) codifica secondo Maimonide il divieto che vige di Shabbat di uscire dal limite fissato dalla Torà (12 mil). Si tratta della distanza massima che si può raggiungere di Shabbat oltre l’ultima casa di una città. I nostri Saggi hanno poi ristretto questo divieto ad un solo mil (2000 cubiti) [in unità moderne circa 1 km]. Il Sefer HaChinuch spiega che la radice di questa mizvà è nel riconoscere che il mondo viene continuamente rinnovato dal Santo Benedetto Egli Sia.

Rav Morechai Elon, sui cui insegnamenti si basa questa derashà, si chiede come mai la Torà scelga di introdurre lo Shabbat proprio con la ‘strana’ mizvà delTchum. Non solo: come mai il Tchum merita di essere menzionato, o almeno ricordato espressamente, mentre le trentanove categorie di lavori proibiti di Shabbat si imparano attraverso le regole ermeneutiche, e non sono mai elencate nella Torà?

Diciamo la verità poi, di tutte le regole dello Shabbat, se ci avessero chiesto qual’è la meno esemplificativa del concetto di Shabbat, probabilmente avremmo detto il Tchum. Non è neppure un’azione vera e propria, e non si capisce bene che ‘male’ ci sia. Un centimetro oltre il Tchum e ho trasgredito lo Shabbat!

Tutto ciò già basterebbe di per sé se Rabbì Jeudà Hannassì, il compilatore della Mishnà, non avesse scelto di aprire il trattato di Shabbat con le regole del divieto di trasporto di Shabbat, che pur facendo parte delle trentanove categorie, è idealmente molto simile al concetto di Tchum.

L’idea di uscire, o di far uscire, sembra dunque essere la prima lezione da capire circa lo Shabbat. Notevole il fatto che se lo Shabbat è la santificazione del tempo, la Torà inizia a spiegarci i suoi limiti nello spazio.

Rav Elon shlita ricorda come il dominio su spazio e tempo venga considerato come uno dei grandi successi dell’uomo moderno. La tecnologia ci permette certamente di relazionarci a spazio e tempo in maniera apparentemente estremamente libera. Pensiamo al giorno ed alla notte. Grazie alla luce elettrica, non fa grande differenza se fuori è giorno o notte e le ore lavorative si protraggono ben oltre il termine naturale della giornata. Tra i giovani è anzi particolarmente invalso l’uso di invertire quanto possibile il giorno con la notte, quasi che più si viva la notte, più si sia ‘moderni’. Lo stesso si può dire per lo spazio. Grazie alle comunicazioni possiamo interagire in pochi secondi a grandi distanze, e l’importanza delle distanze si relativizza. Oggi conosciamo in tempo reale quanto avviene dall’altra parte del globo. Ciò comporta socialmente una perdita d’identità in favore di una globalizzazione delle idee e delle culture. Tutto ciò è bene o è male? Dipende. Come in ogni conquista tecnologica dell’uomo ci sono enormi potenzialità, ma anche incredibili rischi.

Siamo certi che lo stravolgimento del giorno con la notte, abbia portato solo benefici all’uomo? Il fatto che si possa comunicare con chiunque in qualsiasi momento rende l’uomo perfettamente integrato e globalizzato, o sempre più solo? Come ci relazioniamo rispetto a quanto detto fin qui se pensiamo ai ritmi lavorativi massacranti del mondo moderno, o al fatto che il maggior uso che viene fatto di Internet è legato alla pornografia? Se ci fermassimo qui faremmo di certo un torto allo sviluppo umano. Questa stessa newsletter è il risultato di tutte queste tecnologie molto più di quanto si possa credere. Questa settimana non sono riuscito ad andare a sentire la lezione settimanale di Rav Elon shlita. Eppure ieri sera, alla luce artificiale della lampadina, con un semplice click, ho avuto modo di vedere in rete la registrazione video della lezione che questa mattina sto elaborando.

La domanda di fondo è se noi siamo dei dominatori del tempo e dello spazio, o dei santificatori del tempo e dello spazio. Questa è l’unica discriminante.

In Egitto tempo e spazio sono dominati, nemmeno da me, ma di chi domina me e loro. Ricordiamo che l’Egitto è la più moderna delle nazioni dell’antichità. Talmente moderna che non c’è bisogno della pioggia, c’è il Nilo. Ed il signore del Nilo dispone non solo del tempo dei suoi sudditi, ma anche della loro dislocazione geografica. Ricorderemo che il Faraone deporta i suoi servi da una parte all’altra del paese per sradicare il loro concetto di appartenenza geografica. In Egitto il tempo non esiste. Il tempo è del Faraone, ed è puntuale il midrash che vuole tra le colpe degli egiziani quella di aver schiavizzato i nostri padri tanto di giorno quanto di notte.

La redenzione, la liberazione dal giogo egiziano, parte con la contrapposizione del modello della santificazione al modello del dominio. Si parte con il tempo.

“E parlò il Signore a Moshè ed Aron nella terra d’Egitto dicendo: Questo mese è per voi il capo dei mesi, primo esso è per voi tra i mesi dell’anno”. (Esodo XII,1)

La prima lezione per un servo che per duecento e passa anni ha dovuto chiedere il permesso anche per andare in bagno, è che il tempo è suo. Il tempo è un dono sacro che Iddio ci concede in amministrazione perché noi lo si usi degnamente. Ed è proprio la sacralizzazione dello spazio che si affianca a quella del tempo nelle successive regole della notte nella quale usciamo dall’Egitto, notte nella quale il nostro limite invalicabile è la porta di casa. Paradossalmente noi usciamo dall’Egitto non uscendo di casa. Giacché la casa dell’ebreo nella quale si compie il precetto Divino diviene terreno sacro, alla stregua ed in qualche modo anticipazione di Erez Israel. Ed in passato, nelle derashot di www.torah.it, abbiamo ricordato che secondo il Midrash è proprio nella notte di Pesach che Iddio ha condotto i nostri padri sulle ali delle aquile a Jerushalaim per poter offrire il Pesach sul Monte del Tempio.

La libertà dello Shabbat è solitamente contrapposta alla schiavitù egiziana, e certamente possiamo connettere quanto detto fin qui con la doppia santificazione spazio-temporale che delimita il Tchum geografico, nel tempo consacrato dello Shabbat. Nel nostro caso però non compare ricordo o motivazione per l’introduzione dello Shabbat relativo all’uscita dall’Egitto. Moshè propone al popolo una semplice constatazione:Guardate che il Signore ha dato a voi lo Shabbat.L’Or HaChajm HaKadosh sottolinea che il miracolo nel miracolo relativo alla mancata comparsa della manna di Shabbat è sotto gli occhi di tutti. Tutto Israele può vedere lo Shabbat. Non c’è bisogno di motivazione alcuna.

Rav Chajm Friedlander (Siftè Chajm III, 404) spiega che di Shabbat è possibile arrivare a ‘vedere’ il dono dello Shabbat, ma ciò dipende da due condizioni:

1. “risiedete ognuno al suo posto”. Significa essere felici di ciò che si ha. Di Shabbat si può evitare di essere angosciati dalle esigenze di questo mondo. Rav Friedlader lo chiama: shlemut HaShabat, l’integrità del Sabato. Di Shabbat si impara che tutto viene dal Santo Benedetto Egli Sia, di Shabbat si arriva alla comprensione del fatto che tutto quanto si ha è ciò che il Signore ha destinato a noi. L’uomo non ottiene nulla di più o di meno di quanto gli abbia destinato Iddio.

2. “e non esca nessuno dal proprio posto”. Di Shabbat si può capire che non si deve guardare ciò che è nel piatto degli altri. I Saggi dicono (Yomà 38b) che l’uomo non tocca neanche la minima parte di quanto spetta al proprio prossimo. Il riposo dell’anima del Sabato è nel sentire che Iddio le ha dato ciò di cui ha bisogno e non ha senso desiderare quanto ha il prossimo perché non è ciò che le è destinato. Ciò che è bene per l’uno non necessariamente è bene per l’altro.

Dunque lo Shabbat secondo il Rav Friedlander è in primis l’occasione per una riflessione sulla natura dei beni materiali. Di Shabbat si ritrova se stessi (anche) perché non si può viaggiare. C’è una settimana intera per viaggiare fisicamente e spiritualmente, ma c’è un momento della settimana nel quale si deve saper tornare da se stessi e dal Santo Benedetto Egli Sia. Ed ancora limite temporale e limite fisico.

Straordinario poi, ricorda Rav Elon, come esattamente ad un anno di distanza dalla ricezione della prima mizvà, la mizvà della santificazione del tempo, Israel santifichi lo spazio con la costruzione del Santuario.

“E parlò il Signore a Moshè dicendo: ‘Nel giorno del primo mese, il primo del mese, edificherai il Tabernacolo, la Tenda della Radunanza.” (Esodo XL- 1,2)

Lo stesso termine ‘Oel Moed’ che semplicisticamente traduciamo, Tenda della Radunanza, contiene un forte richiamo alla dimensione temporale, seppure in maniera del tutto particolare. Infatti, evidenzia Rav Elon, è impropria la caratterizzazione solamente temporale del termine ‘moed’. Spesso lo utilizziamo per dire, ‘oggi è moed’. Ma il ‘moed’, non è un tempo che ci viene imposto, o che ‘cade’, nell’accezione occidentale del termine. Le feste ebraiche non cadono. Siamo noi che santifichiamo quel giorno. Allo stesso modo il moed è termine che indica un appuntamento che è stato fissato dalle due parti di comune accordo.

“..ed uscì Jonathan per l’incontro [lemoed] con David…” (Shemuel I, XX,35 )
Il Santuario è allora il luogo della Consacrazione dello spazio, spazio sacro nel quale il tempo è quasi sospeso, giacché esso è contemporaneamente tempo e luogo dell’incontro tra l’uomo e D., ed ancora luogo nel quale il Grande Sinedrio consacra il tempo d’Israele santificando il Capomese e di conseguenza fissando i moadim.

Che rilevanza ha tutto ciò per l’ebreo di oggi, che non ha Santuario ed il cui calendario è fissato artificialmente in assenza di Sinedrio?

Rav Elon chiama in questione lo Shulchan Aruch, Rabbì Josef Caro, il quale apre il suo codice con tre regole straordinariamente importanti.

“[1] Si faccia forza come un leone ad alzarsi la mattina al servizio del suo Creatore e sia lui a svegliare l’alba. [2] Colui che si alza per supplicare dinanzi al Suo Creatore si concentri sull’ora nella quale si avvicendano le veglie, che è a un terzo della notte, ed alla fine del secondo terzo della notte, giacché la preghiera che pregherà in quelle ore sulla distruzione del Tempio e sull’esilio è benvoluta. [3] È doveroso per ogni temente del Cielo che si dolga e si preoccupi sulla distruzione del Bet Hamikdash.” (Orach Chajm I, 1-3)

Seppure di scarsissima applicazione, la prima halachà dello Shulchan Aruch, è che la mattina ci si deve alzare prima dell’alba. Non è un invito ai pii o ai giusti, non è ricordato come un uso dei mistici, è Halachà, è la prima delle Halachot. Per quietare le coscienze di tutti coloro che come il sottoscritto trasgrediscono sistematicamente questa regola, bisogna però dire che l’Halachà consente poi di pregare fino alla quarta ora. Ma qual è la fonte per il fatto che si può pregare fino alla quarta ora? Il fatto che è possibile presentare il Tamid del mattino, l’offerta pubblica quotidiana del mattino, fino alla quarta ora. E da dove si impara ciò?

Da un evento catastrofico, che lutti e distruzioni ha seminato nella storia d’Israele. Ce lo racconta il Midrash:

“Questo è quanto è scritto (Proverbi XXXI,1): ‘Parole di Lemuel Re’. Perché è stato chiamato Salomone, Lemuel? Ha detto Rabbì Jshmael, nella stessa notte che ha completato Salomone la costruzione del Santuario, ha sposato Bitja, la figlia del Faraone, e c’era lì il giubilo della gioia del Santuario ed il giubilo della figlia del Faraone, e superò il giubilo della figlia del Faraone il giubilo del Santuario secondo quanto si dice, ‘tutti si ingraziano il re’. E per questo è chiamato Lemuel, che ha scaricato da se il giogo del Regno del Cielo, come a dire, Lamma lo El, che se ne fa di D.? In quell’ora salì il pensiero dinanzi al Santo Benedetto Egli sia di distruggere Jerushalaim, e questo è quanto è scritto (Geremia XXXII, 31) “…per quanto riguarda la mia ira ed il mio furore…etc.”. I Saggi dicono, mille tipi di musica, ha fatto entrare davanti a lui la figlia del Faraone, ed aveva ordinato di suonare davanti a lui in quella notte e gli diceva, così si suona davanti a questa divinità, così si suona davanti a quella divinità etc. Cosa fece la figlia del Faraone? Stese sopra di lui un telo e vi fissò ogni tipo di pietra preziosa e di perla, che vi brillavano come stelle e costellazioni, ed ogni volta che Salomone si voleva alzare vedeva quelle stesse stelle e costellazioni cosicché dormì fino alla quarta ora. Ha detto Rabbì Levì in quello stesso giorno il Tamid della mattina fu presentato nella quarta ora. E di quell’ora abbiamo imparato che è successo che è stato presentato il Tamid della mattina alla quarta ora, ed erano Israele tristi giacché era il giorno dell’inaugurazione del Santuario e non potevano presentarlo perché Salomone dormiva, ed avevano paura di svegliarlo per via del timore del re. Andarono a dirlo a Bat Sheva sua madre, ed andò lei e lo svegliò e lo rimproverò. “ (Bemidbar Rabbà X,14)

Quanto tempo aveva sognato Salomone l’inaugurazione del Santuario? Quanti sforzi, quanti pensieri. Dice il midrash che il vero motivo per cui non potevano presentare il Tamid in sua assenza è che per l’importanza che Salomone dava all’evento aveva disposto una sola chiave per le porte del Santuario e l’aveva posta sotto il suo cuscino. Tutto ciò viene cancellato quando Salomone porta in casa sua la figlia del Faraone. Nell’apice della redenzione, abbiamo rovinato tutto portando l’Egitto a Jerushalaim. Il sistema Egitto. Se sei re puoi dormire fino a tardi. E di ciò si fregiava David, che mentre tutti i re la vedevano così, lui si alzava nel cuore della notte dopo pochi istanti di sonno per comporre i Salmi. La concezione del tempo egiziana arriva a Jerushalaim e decade con essa la sacralità del tempo, persino nella sua quotidianità, e dunque anche la consacrazione dello spazio con il Santuario.

Dice il midrash che in quello steso momento, volò l’Angelo Gavriel e piantò una canna nell’acqua, nel punto in cui sorse la città di Roma.

Per questo Rabbì Josef Caro lega tutto assieme nelle prime Halachot dello Shulchan Aruch. L’imprescindibile concezione ebraica del tempo vuole la notte per riposare ed il giorno per servire il Signore, laddove il giorno inizia prima che sorga il sole. Se non siamo capaci di fare ciò, vuol dire che non siamo ancora capaci di vivere ebraicamente il nostro tempo, che non sappiamo ancora santificare il nostro tempo, ed è bene allora che piangiamo sulla distruzione del Tempio che sancisce la nostra incapacità di santificare tempo e spazio.

Lo Shabbat è allora il momento nel quale possiamo tentare di riparare la frattura nella consacrazione del tempo e dello spazio. E questo proprio attraverso le regole dello Shabbat, da quelle ‘strane’ che delimitano lo spazio dello Shabbat, a quelle più immediate che ne sanciscono i limiti temporali. Lo Shabbat è la chiave per il ritorno a D., la radice stessa della Teshuvà. Veshavtà, e tornerai, che in ebraico si scrive esattamente come veShabbat.

Nella Derashà di Shabbat Vajshlach del 5761 abbiamo ricordato come l’operazione di stabilire il Tchum dello Shabbat sia la prima operazione che Jacov compie, dinanzi a Shechem, nel suo ingresso in Erez Israel. La scrupolosa osservanza dello Shabbat diventa allora lo strumento di redenzione e di presa di possesso di Erez Israel. Di quel pezzo di campo che Jacov santifica attraverso il Tchum dice Ibn Ezrà in loco. ‘Ed il Testo ha ricordato ciò per annunciare il grande livello della Terra d’Israele, poiché chi ha parte in essa, conta come parte del mondo futuro!’

Sia la volontà che possiamo meritare di misurare i Tchumim dello Shabbat dal fiume dell’Egitto, fino all’Eufrate, presto ed ai nostri giorni.

Shabbat Shalom, Jonathan Pacifici

http://www.archivio-torah.it/jonathan/1665.pdf

Condividi:

«

»